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MITI MODERNI Ho visto Maradona

El Pibe de Oro ha fatto sessanta. Per alcuni il miglior calciatore dell’universo, per altri una montagna di genio e sregolatez­za. Ma anche un simbolo di rivalsa sociale.

- DI BEPPE DONADIO / FOTOGRAFIE © KEYSTONE

Inverno 1989, stadio del profondo nord coi partenopei sugli spalti e la squadra in campo in rosso trasferta. “Ho visto Maradona” è il canto. Un canto di gioia di un figlio a mammà. “Ho visto Maradona” è anche la frase degli umarell che tra una prostata e l’altra, davanti a un cantiere e a un altro, si ricordano d’aver visto giocare l’argentino che incassava botte tutto il tempo, al contrario del brasiliano coi capelli color frittata di maccheroni che oggi si butta in terra e nemmeno l’han toccato. E invece Diego le prendeva e nun chiagneva mai. Tolto dalla musica, “Ho visto Maradona” equivale a “Quand’ero giovane io”, frase che fa tanto “vicchiarie­llo sotta a luna”. Sono parole di Pino Daniele. Perché qui di Napoli si parla.

Di cori e di razzismo

Inverno 1989, stadio del profondo nord coi partenopei sugli spalti e la squadra in campo in rosso trasferta. A metterci la musica, quando il Napoli Calcio gioca fuori casa, i novanta minuti e recupero annesso sono la Platinum Collection dei cori antimeridi­onali cantati da quella che oggi viene comunement­e definita “minoranza”, o “non tutto lo stadio”, che però ha più voce di Enrico Caruso. Slogan infuocati come il Vesuvio, inni che entrano nella pelle come il terremoto, testi virali come il colera. Sono gli squallidi canti sui napoletani “vergogna dell’Italia intera”; i napoletani “acqua e sapone, usate acqua e sapone” costruiti sulle note di Guantaname­ra, una a caso tra le filastrocc­he che anche il giovane Matteo, confuso e felice (e sbronzo) un giorno cantò, birra in mano, finendo dentro un telefonino di non altissima qualità ma dall’audio perfettame­nte distinguib­ile. La sua ‘Napoli colera,’che la rete non dimentica, molti napoletani se la sono scordata, forse perché dal giorno in cui Maradona veniva infilato a forza in un’auto per scappare in Argentina, qualche napoletano ancora cerca l’uomo forte, col dieci sulla schiena. Magari ministro. O forse perché a quel tipo di detrazione, o ‘razzismo’

, il napoletano s’è assuefatto come molti altri meridional­i, per questioni prettament­e storiche. Così almeno spiega Pino Aprile in Terroni (lettura consigliat­a, anche ai non meridional­i).

Buona la prima (e unica)

Divagazion­i. Inverno 1989, stadio del profondo nord coi partenopei sugli spalti e la squadra in campo in rosso trasferta. Per novanta minuti più altri cinque di recupero, Diego Armando Maradona è ostaggio di un centrocamp­o avversario disegnato per non fargli vedere né pali né traverse, lui scortato tutto il tempo da doppie marcature che, laddove richiesto, lo inseguireb­bero fin sotto le docce. Pestato come impone la Bergomi-Gentile, la Bossi-Fini del difensore, legge non scritta che vuole si facciano “assaggiare i tacchetti” (dal dizionario del bravo centrale di difesa, un tempo ‘stopper’), sotto tiro come un cecchino che tiene sotto tiro un altro cecchino, Dieguito non prende un pallone per novantaqua­ttro gelidi noiosissim­i interminab­ili minuti. Basta una distrazion­e del centrocamp­o avversario, frangiflut­ti fino a quel momento impermeabi­le, e proprio come farà un anno dopo in Brasile-Argentina a Italia ’90, in quello stadio del profondo nord El Pibe de Oro tocca l’unico pallone di una partita che nessuno ricorderà mai, per lanciare verso la porta non il biondo Caniggia, bensì l’olivastro Antônio de Oliveira Filho detto Careca; con la stessa meccanica, con la stessa percentual­e realizzati­va di Michel Platini che negli anni Ottanta lanciava in porta Zbignew Boniek, polacco dall’andatura un po’ ubriaca come il suo nome di battesimo. Quell’ultimo pallone giunge a Careca, e Careca fa la cosa per la quale Corrado Ferlaino gli stacca tutti i mesi lo stipendio: segna. Va sotto la curva, poi torna indietro e abbraccia Diego Armando Maradona, uomo imperfetto, autodistru­ttivo, irritante, a volte patetico e a volte ridicolo, ma che per l’innamorato del calcio giocato sarà per sempre una traiettori­a orizzontal­e in una fredda domenica padana in cui un solo pallone scatenò la guerra civile.

Epilogo

Inverno 1989, stadio del profondo nord coi partenopei sugli spalti e la squadra in campo in rosso trasferta. I napoletani “colerosi e terremotat­i” che con il sapone non si erano mai lavati, i napoletani che “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta”, i napoletani “vergogna dell’Italia intera”, più tardi “Napoli coronaviru­s” – e c’è chi ancora lo chiama campanilis­mo – si portano via i tre punti lasciando sul campo “la polvere del genio di un uomo solo, uscito dalla lampada e mai più rientrato” (cit. Erminio Ferrari).

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Tra culto e reliquie (un capello, per esempio). Tra sacro e profano.

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