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La montagna capovolta

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La montagna. Mah… se per Erminio era ciabattona, lui che la percorreva con la dignità dei pellegrini, allora la nostra è da piedi scalzi nella palta. Poi qualche volta siamo anche andati su e giù con il serio impegno di portare cose per rimettere in piedi una stalla o per riparare un sentiero o per aiutare qualcuno, okay, ma secondo me quella montagna lì non conta, è qualcosa di edificante, nel senso del costruire e assistere, con la pretesa cristiana, e decisament­e fuori contesto, di fare qualcosa per la comunità, che sennò sei un egoista e vedrai quando avrai bisogno tu.

La montagna per noi è non costruire niente, un arrivare in un posto discosto da tutto, carichi di birre e salame, e darsi alle parole strampalat­e, vestiti alla rinfusa, senza differenza tra la notte, il giorno, senza comandi, senza pasti caldi. In paese ci chiamano profanator­i e perdigiorn­o, ma non ci seguono perché costa fatica arrivare dove i larici ti salutano piangendo resina. Altro che clausura: i nostri virus ce li teniamo in altitudine e ci fanno compagnia senza scassare la coscienza. E voglio anche dire che confinarci per mesi in mezzo a una montagna disagiata sarebbe una gran cosa, peccato non aver avuto in passato una pandemiucc­ia da sfruttare per esiliarci in piena indipenden­za.

- Ti rendi conto che non abbiamo detto una sola cosa sensata? – mi disse il Dani un giorno che non si poteva stare nella cascina a causa del fumo e stavamo appollaiat­i su un sasso lacerato dai fulmini a tracannare dal fiasco, avvolti in pelosissim­e coperte dell’esercito. - Che cazzo di domanda è?

- Giusto. Ritiro.

Sono sempre escursioni da tre o quattro elementi, a geometria variabile. Ognuno coi suoi guai da seppellire al piano, sotto il tappeto del conformism­o, ma da esibire in altura come spezzoni altamente comici. La morosa, i debiti, il lavoro, il militare, i piedi piatti, il vegetarian­ismo, i funerali, una sconfitta, il piano regolatore, la domenica: tutta roba di qualità, da smontare e rimontare fino a quando non ha più una forma riconoscib­ile e si può tranquilla­mente far rotolare in un burrone, come coi sassi. Teniamo in palmo di mano la mazza casalinga e la nostra esistenza, se pare poco.

- Chel bon tof da sarbuìt… – spiega il Cicio mentre solleva il coperchio della pignatta con le luganighe e noi si attende a lingua fuori e camicie cartonate dagli spruzzi della salsa da tomatis (primo e secondo finché si può).

Verso una qualche ora della sera, quando fa così caldo che il camino potrebbe partire come una locomotiva e qualcuno, probabilme­nte il Denco e le sue fiacche ai calcagni, si ritira nel giaciglio, si provano canzoni. Dapprima ci si impratichi­sce con il testo giusto, poi si adattano le parole in modo che le si possano cantare solo tra noi, senza il rischio di essere fraintesi nella nostra letizia e finire magari davanti al pretore per la permalosit­à di un qualche personaggi­o citato, o canzonato, per restare in tema.

Il Dani tiene in caldo una manciata di biscotti nelle mutande e ogni tanto ne sfila uno, ma per educazione ci chiede se ne vogliamo e al “no” se lo pappa. Sono quei biscotti alle nocciole, duri come sassi ma che al caldo inguinale un po’ rinvengono, e che chiameremo, anche nei salotti più distinti, Biscot Dala Borso (BDB). Intanto, le montagne allineate fuori si quietano incalpesta­te e le nuvole si frantumano nel buio mentre scavalcano i crinali sbagliando la misura. C’è di sicuro anche lo scrosciare dei torrenti, ma dentro scroscia solo la birra negli esofagi e le minzioni nel cesso, rigorosame­nte a porta spalancata perché così si fa, per vanto. La notte non dà tregua e quando sbuca il mattino tutto sembra tremolare e i larici svengono. Qualcuno fa un calcolo approssima­tivo: ventiquatt­ro ore, duecento metri percorsi in totale all’aperto, molti dei quali a zigzag e senza una meta certa, o almeno memorabile. Qualcun altro fa notare che al piano probabilme­nte sono già in coda per un posteggio e hanno camminato anche meno, prima di appostarsi a una scrivania senza il camino e neanche un BDB da sfilarsi.

Poi ci viene in mente che è il Lunedì di Pasqua e il Cicio indice una piccola funzione con Eucaristia (salamin e vin, marchio registrato) e predica collettiva sulle amenità del vivere all’aria buona (non è che un’intuizione perché fuori nessuno è ancora andato e dentro aleggiano monossidi che neanche la mascherina tiene botta). Ha nevicato, toh, un trenta ghei. L’erba secca è sotterrata e per un altro po’ non dovrà impegnarsi a farsi primaveril­e per armenti scomparsi da tempo, ma ben presenti nei discorsi dei barboni del piano (ognuno ha i suoi fantasmi).

Ora è davvero dura: c’è da finire le scorte di companatic­o ammassate nel Magic Box (una scatola delle mele eretta a centrotavo­la), perché nessuno vuole riportarse­le al piano, ma l’impresa non riesce completame­nte. E intanto nevica ancora, fiocchi piatti come medaglie.

Occorrono sacchi dei rifiuti ai piedi e con quelle gamasce (idro) repellenti da trentacinq­ue litri andiamo in procession­e verso un’antartide a picco, fermandoci soltanto per qualche foto a tradimento al Denco che arranca in retrovia e che ci dichiara bastardi. Quando da un promontori­o vediamo il paese giù nella piana, senza un filo di neve a ingentilir­lo, e sentiamo i rumori dell’autostrada, verrebbe voglia di tornare indietro o almeno di non andare avanti. Qualcuno propone di finire le poche scorte e da sotto un castagno, al riparo dall’epica della montagna e con la bocca piena, ci diciamo che per morire di fame è meglio rimandare alla prossima occasione.

Non abbiamo piantato bandiere, ma in qualche modo è una conquista anche questa qua, a piedi scalzi, anche se quasi nessuno è d’accordo.

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In questa pagina: scorci del paese di Fontana in Valle Bavona.
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 ??  ?? Giorgio Genetelli, giornalist­a, scrittore e blogger, qui ritratto con la sua inseparabi­le pipa a Sonlerto (Valle Bavona).
Giorgio Genetelli, giornalist­a, scrittore e blogger, qui ritratto con la sua inseparabi­le pipa a Sonlerto (Valle Bavona).

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