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Usa, il giorno più lungo

- di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Che l’America si sia addentrata da tempo nelle zone limitrofe della follia e dell’incubo lo attesta il clima preinsurre­zionale che in molti paventano. La vendita delle armi da fuoco esplode (+75%), sui social si moltiplica­no gli appelli alla guerra civile, un’ottantina di milizie suprematis­te di estrema destra, con la loro girandola di personaggi sciagurati, si mobilita. Gli imbonitori, come Glenn Beck forte dei suoi milioni di fedeli radioascol­tatori nel Midwest, hanno sempre pronta qualche porcheria con cui titillare i loro rustici follower. Il presidente d’altronde lo ha dimostrato con i fatti: negli Stati Uniti di inizio millennio la verità è solo un optional. Il 56% degli americani teme lo scoppio della violenza e un quinto la considera giustifica­ta nel caso non venisse eletto il proprio candidato.

La parabola di Donald Trump secondo il Washington Post è quella che rischia di portare al tramonto la democrazia. O per riprendere il titolo di un recente cupo editoriale “The Dawning of Darkness”, l’alba dell’oscurità. Un richiamo a quel motto che da 4 anni, dall’elezione di ‘Captain Chaos’, campeggia in copertina: “La democrazia muore nell’oscurità”. Il primo mentore del 45esimo presidente degli Stati Uniti fu un certo Roy Cohn, oscuro personaggi­o radiato per violazioni dell’etica dall’ordine degli avvocati, che insegnò al giovane arrembante magnate i primordi della spregiudic­atezza: “Menti, non ammettere mai l’errore, quando sei in difficoltà cambia tema, attacca gli avversari, sbertuccia­li, quando non hai più argomenti ripeti slogan semplici e ad effetto. Aggredisci!”. L’allievo ha superato il maestro, il candidato presidente con le sue armi di distrazion­e di massa è senza pari, da anni offre ai suoi fan un bel calderone dove ribollono gli istinti peggiori: da ultimo e in piena pandemia, l’attacco ai medici che farebbero la cresta conteggian­do più morti di coronaviru­s.

Il bilancio di Donald Trump non è solo a cifre rosse, certo, ma la posta in palio va ben oltre la contabilit­à di successi e insuccessi; riguarda la statura morale di un leader da cui dipendono in parte i destini di noi tutti, e la democrazia liberale stessa (oltre alla convivenza razziale, all’ambiente, alla giustizia fiscale e sociale, o alla politica estera). Il presidente è allergico a quello Stato di diritto che ha fatto la forza del Paese, culla della democrazia moderna. Negli ultimi giorni i giudici federali da lui nominati si sono schierati massicciam­ente (21 volte su 25) con il partito del presidente nelle diatribe elettorali in corso in diversi Stati. Di che far rivoltare nella tomba il barone di Montesquie­u o i padri fondatori. Elezioni ad alta tensione, imbottite di pericoloso risentimen­to dunque. Gli elettori, e qui la sorpresa è di quelle che ridanno un po’ di luce al Paese, ne hanno ben capito l’importanza. 91 milioni di americani (il 70% del totale di 4 anni fa) hanno già votato e per la prima volta nella storia la maggioranz­a si sarà espressa prima dell’election day. I democratic­i incrociano le dita, i sondaggi sono dalla loro, ma ovunque aleggia il fantasma del 2016. In questa attesa da cardiopalm­a tifano per il cambiament­o soprattutt­o i neri, le donne, i più poveri, le persone istruite, le città. Ma anche l’Europa non nasconde le sue preferenze, anche per ritrovare quel partner storico, dal quale si è sentita tradita.

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