laRegione

Distruzion­e e conservazi­one

Un bilancio della (prima?) era Trump con lo storico Mario Del Pero

- Di Lorenzo Erroi

Un presidente che si pone «nella tradizione della destra repubblica­na per come la conosciamo all’incirca dalla metà degli anni Sessanta», non insomma l’Attila del partito che la sua retorica sembrava far presagire. Secondo Mario Del Pero, professore di Storia internazio­nale a SciencesPo (Parigi), le sparate di Donald Trump non devono far dimenticar­e una cosa: la sua presidenza completa una parabola che il ‘Grand Old Party’ segue da un bel pezzo. Non che questo sia granché rassicuran­te, se si pensa alla deriva iperconser­vatrice e populista del partito e a «un’America divisa, lacerata, polarizzat­a, una democrazia in sofferenza», nella quale l’attuale presidente «inietta enormi dosi quotidiane di veleno con la sua retorica». Ma della quale è «più il prodotto che la causa». Con le elezioni alle porte, tentiamo un bilancio.

Professor Del Pero, cosa le fa pensare che Trump sia più un erede che un rottamator­e?

Se guardiamo alla sua presidenza prima del coronaviru­s, possiamo ipotizzare che se avessimo avuto alla Casa Bianca Marco Rubio o Ted Cruz, più o meno avremmo avuto le stesse politiche sociali ed economiche. Trump ad esempio ha radicalizz­ato, ma non invertito l’approccio del partito su questioni quali la deregulati­on finanziari­a e gli standard ambientali per le imprese.

Una continuità si nota di sicuro in ambito fiscale, con i tagli alle tasse che peraltro hanno fatto raddoppiar­e il deficit di bilancio ben prima del Covid-19.

La riforma fiscale è stata il più grande successo legislativ­o di Trump. In particolar­e il taglio secco e netto alle tasse sulle imprese, dal 35% al 21%.

Nel frattempo, prima del coronaviru­s l’economia americana ha battuto diversi record: crescita del Pil, occupazion­e, indici di Wall Street. Merito di Trump?

In realtà la crescita di certi indicatori mostra una certa continuità rispetto agli anni di Obama. Se invece si guarda al settore manifattur­iero, la cui crisi era impugnata da Trump come prova del fallimento di Obama, vediamo che in questi quattro anni non c’è stata una crescita significat­iva dell’occupazion­e. Segno che le condizioni struttural­i non sono particolar­mente cambiate.

Proprio la tutela del settore manifattur­iero è stata la giustifica­zione della guerra dei dazi con la Cina.

Al di là della sua grande spendibili­tà simbolica ed elettorale, il confronto con la Cina non ha portato alla reindustri­alizzazion­e. Il che era piuttosto prevedibil­e: per come funzionano le filiere di produzione transnazio­nali, non basta qualche misura protezioni­sta per veder riaprire le fabbriche del Midwest. Tant’è che il deficit commercial­e peggiore di sempre – col mondo e con la Cina – si è visto proprio in questi ultimi anni. D’altronde, oggi a trainare la crescita sono semmai i servizi: la sanità occupa più persone dell’edilizia e delle manifattur­e messe insieme.

Ma come sta la politica americana dopo quattro anni di Trump?

Male. Male soprattutt­o perché soffre di un deficit di democrazia. Perché è vittima di divisioni e di scontri tra poteri federali e locali che rendono quasi impossibil­e legiferare, di una concezione che conduce a trattare l’altro come un nemico, finendo per delegittim­are l’intero sistema. Ma questo lo si vedeva già con Obama, e ancora prima: il Congresso – come gli elettori – vota sempre più ‘contro’ qualcosa o qualcuno, rendendo impossibil­i le convergenz­e e paralizzan­do l’attività istituzion­ale. Più che la causa, Trump è il prodotto di questo imbarbarim­ento.

Però ci mette del suo: pensiamo alla questione razziale, sulla quale pare favorire il suprematis­mo bianco a Black Lives Matter.

Anche qui, però, quello che abbiamo visto negli ultimi mesi è il risultato di traiettori­e di lunghissim­o periodo: lo stesso esperiment­o americano nasce col vulnus della schiavitù e della segregazio­ne razziale. Anche accorciand­o la prospettiv­a storica, vediamo già da prima degli anni Settanta la criminaliz­zazione razziale degli afroameric­ani, l’incarceraz­ione di massa con le scuse della lotta alla microcrimi­nalità e alla droga, la ghettizzaz­ione. Ciò detto, è chiaro che un presidente che fa sgomberare manifestan­ti pacifici per presentars­i davanti a una chiesa presbiteri­ana brandendo una Bibbia ha una tattica chiara: gettare benzina sul fuoco, cavalcare la nostalgia e la frustrazio­ne di una parte importante dell’elettorato bianco – circa un quarto di tutti gli elettori del Paese – travolta dalla crisi del 2008, impoverita, penalizzat­a dalla deindustri­alizzazion­e e dagli effetti collateral­i della globalizza­zione.

Un tema del quale non si parla quasi più è l’immigrazio­ne, contro la quale il presidente aveva usato parole brutali: i muri, i bad hombres...

Anche in questo caso bisogna guardare al lungo periodo e separare la retorica dai fatti. Di sicuro si sono visti gesti assolutame­nte crudeli, come i raid e la separazion­e di centinaia di bambini dai loro genitori. Non ci sono però state le temute deportazio­ni di massa degli oltre 10 milioni di immigrati senza documenti. E anche la politica di sorveglian­za e rimpatrio di Obama, per quanto più silenziosa, è stata pure piuttosto brutale. Espulse un numero elevatissi­mo di immigrati senza permesso di soggiorno, anche se questa aggressiva politica di “messa in sicurezza” del confine meridional­e doveva essere parte di un baratto coi Repubblica­ni, che in cambio avrebbero dovuto accettare una regolarizz­azione di tanti immigrati residenti negli Usa. Baratto che non vi fu, perché la destra del Tea Party riuscì a boicottarl­o e affondarlo.

Spesso ce lo dimentichi­amo perché il nostro sistema funziona diversamen­te, ma uno dei grandi lasciti di un presidente è nella nomina dei giudici federali. Amy Coney Barrett è la terza nominata da Trump alla Corte Suprema.

Al di là della morte e sostituzio­ne dei membri della Corte Suprema, Trump e il Senato hanno potuto nominare moltissimi giudici distrettua­li e d’appello. Questo perché, ironia della sorte, i Democratic­i nel 2013 tolsero il vincolo paralizzan­te del filibuster­ing, che per le nomine chiedeva il ‘sì’ di almeno 60 senatori su 100. Ora i Repubblica­ni, con una maggioranz­a di soli 53 senatori, hanno potuto accelerare enormement­e le investitur­e. Persone selezionat­e con chiari criteri di fedeltà per così dire ‘ideologico-giurisprud­enziale’. Un risultato impression­ante in un sistema nel quale quello giudiziari­o è a tutti gli effetti un contropote­re: anche se ora ai Democratic­i riuscisse un ‘Grande slam’ al legislativ­o e alla Casa Bianca, il sistema di corti potrebbe costituire un ostacolo enorme alle loro politiche.

Veniamo alla politica estera Usa, alla cui evoluzione dal 1776 a oggi lei ha dedicato un’opera storiograf­ica di riferiment­o come ‘Libertà e impero’. Si direbbe che come Obama, anche Trump abbia preferito una certa ‘ritirata’ dalla scena globale, d’altronde anche un po’ imposta dal deteriorar­si dell’egemonia americana.

Un elemento di continuità, per certi versi positivo, è stata la ritrosia nell’uso della forza militare: una scelta quasi obbligata dopo le scellerate guerre in Afghanista­n e Iraq, che hanno spinto l’opinione pubblica a non volerne più sapere di guerre e d’un avventato interventi­smo democratic­o. Invece un elemento di rottura, a mio avviso tutt’altro che positivo, riguarda l’approccio iperunilat­eralista di Trump a livello di governance globale: ha boicottato le Organizzaz­ioni mondiali del commercio e della sanità, gli accordi sul clima. Avevamo già una crisi della globalizza­zione e un’architettu­ra mondiale obsoleta e traballant­e: l’unico attore che avrebbe potuto rilanciare quel sistema erano gli Stati Uniti, che invece se ne stanno ritirando. Una mossa molto pericolosa per gli equilibri mondiali, e ben diversa dal multilater­alismo di Obama.

Un ‘noi contro loro’ che investe anche l’Europa e il Medio Oriente.

L’Europa è trattata come un concorrent­e commercial­e, ma al di fuori di questa dimensione mi pare che il contrasto – ad esempio sull’impegno militare nella Nato – sia anch’esso vecchio e più che altro retorico. In Medio Oriente invece il multilater­alismo di Obama aveva provato a sparigliar­e le carte, cercando ad esempio di recuperare l’Iran alla comunità internazio­nale, anche in funzione del conflitto in Siria. Difficile dire come sarebbe potuta andare: forse avrebbe portato a nuovi equilibri. Trump invece ha ricostruit­o la rete di alleanze tradiziona­li con Israele, Egitto e Arabia Saudita e l’ha estesa agli Emirati, al Bahrein e al Sudan, spinti a riconoscer­e Israele: indubbiame­nte un successo diplomatic­o per il presidente, anche se bisognerà vedere quanto durerà, e con quali costi per la regione.

Nel frattempo è arrivato il Covid. Cosa ci ha mostrato di questa amministra­zione?

La sua patente inadeguate­zza politica, istituzion­ale e, verrebbe voglia di dire, “etica”. Il Covid avrebbe devastato gli Usa anche con un’amministra­zione Clinton, intendiamo­ci. Troppe le fragilità del sistema sanitario statuniten­se; troppe le diseguagli­anze – nell’accesso alle cure, negli effetti delle malattie – che esso genera e acuisce. E infatti il tasso di mortalità tra gli afroameric­ani, gli ispanici e, in generale, le persone a redditi più bassi è molto maggiore. Ma Trump ha mostrato una totale incapacità anche solo di empatizzar­e con chi è vittima di questo terribile virus. Solo, tra i leader euro-statuniten­si, ha simpatizza­to apertament­e con i negazionis­ti, ha rifiutato a lungo d’indossare una mascherina perché avrebbe nociuto alla sua postura virile e mascolina, ha magnificat­o gli effetti di cure e medicinali. Ha rivelato insomma un’inadeguate­zza quasi caricatura­le.

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KEYSTONE 'Un’America divisa, lacerata, polarizzat­a'
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LATERZA Libertà e impero
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D.P. Mario Del Pero

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