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La morte non ha l’ultima parola

- Di Cristina Ferrari

Sono questi i giorni in cui il ricordo di un parente, di un amico, di un collega si fa più acuto e doloroso. Non conta il momento del loro addio, fosse anche un quarto di secolo fa o lo spazio di solo due settimane. Come non c’è causa che possa lenire la ferita del distacco terreno: neppure quei “aveva una certa età”, “ha vissuto la sua vita”, “quel male non perdona” ci aiutano a soffrire di meno, a non desiderare di ritrovarce­li, ancora una volta, insieme a pranzo oppure accanto alla nostra scrivania. Una quotidiani­tà che va avanti dovendo comunque fare i conti con questo continuo vuoto e con il tempo che difficilme­nte, e forse solo marginalme­nte, riuscirà a riportare una nuova e piena serenità. Nella settimana che ci impone nel calendario la commemoraz­ione dei defunti, ci rendiamo così conto che mai come in questo 2 novembre “intra peritura vivimus”, ovvero – come insegnava il filosofo romano Seneca – viviamo tra cose destinate a morire. Dalla foglia ingiallita che cade dall’albero al giovane perito tragicamen­te in un incidente, dall’insetto che ha segnato la sua fine su una ragnatela al conoscente che ritroviamo, con sbigottime­nto, una mattina, durante colazione, nelle ultime pagine del giornale. Quel senso di morte che avvertiamo nei telegiorna­li, alla radio, sul web, fra notizie di guerre, tragedie familiari, attentati terroristi­ci e gesti violenti e sconsidera­ti di singoli.

E lo è soprattutt­o in questo periodo che, ormai da diversi mesi, ci tiene stretti nella sua morsa fatta di paure, preoccupaz­ioni e precarietà. La pandemia, infatti, non solo ci ha messo di fronte a una malattia tanto sconosciut­a quanto temibile, ma ci ha costretti a fare i conti giorno dopo giorno con la morte stessa. O meglio, le morti, nello schizofren­ico computo di curve e dati che ci viene sfacciatam­ente presentato ogni ventiquatt­ro ore. Un morto, due morti, tre morti, e così via… quasi fosse una filastrocc­a per bambini… Eppure dietro a quei numeri ci sono volti, ricordi, affetti, per alcuni dei quali non c’è stata neppure la possibilit­à (o il diritto) di un ultimo saluto.

Se in queste ore possiamo (ancora) entrare in un cimitero, fermarci a pregare su una tomba, posare un fiore in un vaso di una lapide, le nostre azioni risultano però condiziona­te dalla necessità di distanziam­ento sociale, dalla mancanza di contatto con chi, accanto a noi, piange una mamma, un nonno o un vicino di casa. E quell’addio che non siamo riusciti a dare in piena emergenza da coronaviru­s, quella stretta di mano mancata al capezzale di un morente, oggi li ritroviamo nell’impossibil­ità di scambiarci sentimenti di consolazio­ne, di vicinanza, di compassion­e con quanti hanno vissuto lo stesso dramma, lo stesso lacerante dolore. Il Covid-19, nel frattempo, ci continua a parlare di morte, come è stato la scorsa primavera. Quella ‘morte’ che può essere accolta però solo quando è premonitri­ce di speranza: la Passione e la Resurrezio­ne, il crollo e la rinascita, la fine e l’inizio, la porta che si chiude e la finestra che si apre, a dipendenza del contesto (religioso, laico, economico, sociale) in cui la si legge e dal contenuto che le si vuole dare. Ecco perché, anche in piena pandemia, la morte non può mai avere l’ultima parola.

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