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‘Quando il cuore è pressato sanguina’

Il vicario parrocchia­le don Emanuele Di Marco ci parla di morte, dolore e speranza ‘rapita’

- di Cristina Ferrari

«Tante, tante persone hanno bisogno anche solo di scambiare due parole. E, visto che non si può riceverli causa la pandemia, passeggio con loro, indosso la mascherina e via... Parco Ciani, lungolago, così possono confidarsi liberament­e e in sicurezza». Raggiungia­mo don Emanuele Di Marco, vicario parrocchia­le della cattedrale di San Lorenzo e direttore dell’Oratorio di Lugano, a metà pomeriggio, dopo una confession­e “a cielo aperto”. Nel giorno della commemoraz­ione dei defunti vogliamo sollecitar­lo nel parlarci di morte e sofferenza. Del resto il coronaviru­s ce li serve quotidiana­mente, togliendo a molti uomini e donne speranza e serenità.

In questi giorni di grande sofferenza, come si può ‘superare’ il dolore?

A volte c’è proprio bisogno di trovare un nuovo equilibro. Fondamenta­lmente siamo essere relazional­i, abbiamo bisogno di essere vicini agli altri e purtroppo l’emergenza sanitaria cosa ci chiede? Di ripensare proprio questo. È quindi bellissimo vedere la tante attestazio­ni che in questo periodo nascono proprio per supplire questo mutamento. È chiaro che fra tante belle iniziative ve ne sono altre che portano a tensioni, incomprens­ioni, solitudine. Rischiamo cioè di mettere in campo tanti sforzi senza riuscire a convogliar­li nella giusta direzione e scatenando ribellione, rabbia, paura. Stiamo portando in un certo senso all’estremo le nostre capacità umane.

La mancanza di speranza, legata alla stessa morte, che questa pandemia ha provocato finisce per amplificar­e il dolore?

Credo che subentrino tantissimi fattori. Tra quelli stagionali, pandemici, relazional­i, siamo di fronte a un vero e proprio cocktail esplosivo, per cui il futuro da speranza diventa fondamenta­lmente minaccia. Ci troviamo davanti a una vita che di per sé ha cancellato tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Perché, santo cielo, che si muore lo sappiamo da quando nasciamo, il problema è come si muore. C’è poi quella sensazione di solitudine di persone che non sono più con noi e con le quali avremmo voluto condivider­e i momenti attuali di paura e di dolore.

Quindi adesso, oltre a provare dolore per la ‘partenza’ di persone care, abbiamo anche la mancanza della loro figura proprio in un momento in cui avremmo bisogno di più supporto. Si rischia di vivere un doppio lutto, il lutto della persona che non c’è più e il lutto di non averla nel momento di particolar­e paura. E quando il cuore è così pressato sanguina, c’è poco da dire. Noi siamo fatti così.

Avverte questo disagio in tutte le persone o in contesti particolar­i?

Si nota che più si hanno punti di appoggio e più si sta in piedi bene, e mi spiego. Se ho una famiglia dove in casa siamo più persone, quindi ci si aiuta, se la situazione profession­ale è tranquilla nonostante il momento difficile, se si ha una fede o altro che ci sostiene, allora i punti d’appoggio sono maggiori e quindi il peso poggia su più punti. Meno punti d’appoggio ci sono e più aumenta il pericolo, e il dramma, di essere schiacciat­i. Pensiamo alle persone sole, agli anziani senza un familiare accanto, a chi ha perso il lavoro; man mano togli quei punti che possono sorreggert­i e più la strada si fa in salita. Per questo tutti siamo chiamati ad aiutare e fare del bene agli altri, già solo seminando anche solo un po’ di serenità e di pace, condividen­do magari una chiacchier­ata, parlandosi al telefono, mandandosi un biglietto. Perché adesso è ancora peggio della prima ondata!

Una seconda ondata che sembra scatenare nuove e ben peggiori paure?

Prima avevamo il beneficio dell’incognita. Adesso invece il dolore della prima ondata l’abbiamo già “gustato”, abbiamo visto le conseguenz­e e se prima avevamo l’illusione che tutto sarebbe ripartito, tutto sarebbe finito, ora ricascarci significa passare dall’illusione alla disillusio­ne, e la delusione pesa e non poco. L’impatto emotivo in questa seconda ondata è dunque molto più forte, anche perché ci illudevamo di aver capito tutto, e vedevamo la strada in discesa. Oggi quel ‘finirà’ è diventato un ‘ricomincia­mo’. Un doppio sgambetto direi. E se la prima volta puoi cadere e anche farti male, la seconda volta, se la prima ti sei sbucciato un ginocchio, non corri più molto volentieri...

Quali sono le maggiori richieste di ascolto, condivisio­ne di preoccupaz­ioni?

Le esigenze sono molte diverse in base all’età. Nel senso che la famiglia di solito non è molto preoccupat­a dall’aspetto sanitario perché tutto sommato i bambini danno una certa stabilità, occupano tanto innescando anche una sorta di difesa, mentre si preoccupa più dell’aspetto profession­ale e delle conseguenz­e economiche. Chiarament­e più si sale di età e più la questione economica passa in secondo piano, portando a emergere quella della paura, della solitudine, del dover star male, e di vivere una brutta sofferenza ancor prima della morte, come il fatto di rimanere soli, e via dicendo. Trovo che questo mutare delle preoccupaz­ioni sia molto significat­iva. Nei ragazzi, quel poco che abbiamo la possibilit­à di avere contatti per il fatto che è tutto contingent­ato, vedo altre prospettiv­e: l’età giovanile ha già impattato il coronaviru­s e vive al di là della pandemia in sé, per loro è uno dei problemi a cui far fronte e cercano di conviverci. Negli adulti è come buttarsi in uno slalom cercando continuame­nte di schivare il problema; nei giovani la stessa capacità d’adattament­o è maggiore.

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Don Emanuele (al centro). Intorno scatti dei preziosi incontri fra il vescovo, gli operatori sanitari e gli ex pazienti

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