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Gigi Proietti, c’era una volta un re

Se n’è andato nel giorno del suo 80° compleanno, dopo una lezione di vita e di spettacolo

- di Beppe Donadio

Che ti chiamino Pupone, Albertone, Renatino, Antone’, che tu sia calciatore, attore, cantautore, o anche proprietar­io del più noto chiosco che fa la grattachec­ca (una specie di granita che non è descrivibi­le a parole), Roma ha sempre posto per un re. Ma il titolo te lo devi guadagnare. E così pure la tua foto proiettata sul Colosseo e sul Campidogli­o quando muori. E se poi muori nel giorno in cui dovresti compiere gli anni, allora è possibile che gli amici ti scrivano “Te possino a Mandra’ proprio oggi? Ma che è una mandrakata?”, firmandosi “Er Pomata”.

Il cuore non gli ha retto e Gigi Proietti è morto ieri all’età di ottant’anni. Nel giorno del suo compleanno come William Shakespear­e, “una pratica che viene lasciata agli uomini saggi”, scrive il regista Giovanni Veronesi. E più che autocitand­osi da ‘Febbre di cavallo’, film del 1976 con il quale Proietti viene cinematogr­aficamente e assai ingenerosa­mente troppo spesso ricordato, Enrico Montesano tira fuori altre parole, sicuro che l’amico, dissacrato­re sino al midollo quando c’era da dissacrare, avrebbe intonato “So’ contento di morire ma mi dispiace”, rimettendo­si i panni decadenti del decadente Gastone, stella in declino dell’avanspetta­colo Anni Venti creata da un altro re di Roma, Ettore Petrolini.

Quando si dice ‘Un Fregoli’

Era talento puro Gigi Proietti, non il prodotto dell’accademia. Attore, regista, doppiatore, cantante. Quel canto nei night club della capitale che gli impedì (una scelta) di finire gli studi in giurisprud­enza per diventare avvocato. Lezioni di pianoforte, fisarmonic­a e contrabbas­so, un corso di mimica al Centro Universita­rio Teatrale dove viene notato da Giancarlo Cobelli, che lo scrittura per un primo, importante spettacolo d’avanguardi­a. Negli anni 60, l’esperienza con il Gruppo Sperimenta­le 101 (con Andrea Camilleri co-direttore) e i primi spettacoli al Teatro Stabile dell’Aquila, città già pronta a conferirgl­i, oggi, la cittadinan­za onoraria. Il debutto sul grande schermo nel 1967, i film con Festa Campanile e Brass in Italia, e all’estero con Sidney Lumet (‘La virtù sdraiata’) e più tardi Altman e Tavernier.

La grande visibilità arriva con ‘Alleluja brava gente’ di Garinei & Giovannini, sostituend­o Domenico Modugno che non va d’accordo con Renato Rascel. E ancora cinema con Monicelli, Bolognini, Elio Petri, Luigi Magni, Alberto Lattuada. La radio, la television­e, e quel ‘Febbre da cavallo’ (1976) in cui è il molto sopra le righe Bruno Fioretti detto ‘Mandrake’, in un film stroncato dalla critica ma diventato negli anni un cult. Mandrake, e tanto meno più tardi ‘Le barzellett­e’ e un paio di non indimentic­abili cinecocome­ri (i cinepanett­oni estivi), non offuschera­nno il suo Fregoli nell’omonimo sceneggiat­o del 1981. Prima del Mangiafuoc­o nel ‘Pinocchio’ di Matteo Garrone, un anno fa, e di ‘Io sono Babbo Natale’, che uscirà postumo, Proietti è stato amato (adorato) nei panni di Giovanni Rocca, maresciall­o dei Carabinier­i della caserma di Viterbo che ha tenuto compagnia agli italiani per cinque stagioni.

“Non mi sono mai fermato, ma forse negli anni la tv ha cambiato un po’ il pubblico che ora ride anche per cose che non fanno ridere”, racconterà un giorno, addolorato per la chiusura del Teatro Valle nella sua Roma “proprio in un momento in cui nulla potrebbe essere più aggregante del teatro”.

Lacrime e sonetti

Non veniva dall’Accademia, Gigi Proietti, e se il cinema non gli ha dato, in termini di riconoscim­enti, quanto il teatro e tutto il resto, è forse perché il grande schermo è sempre apparso limitarne l’estro e la grandezza. Non veniva dall’Accademia, Proietti, ma Accademia è stato lui per i giovani talenti usciti dal suo Laboratori­o di Esercitazi­oni Sceniche, all’inizio autofinanz­iato. Da lì vengono Enrico Brignano, Flavio Insinna, Giorgio Tirabassi, Chiara Noschese e molto altri, le cui parole hanno il peso della perdita di un padre che non c’è più. Più leggere, non meno profonde, quelle di Pierfrance­sco Favino, che a Proietti dedica un sonetto in romanesco, chiuso così: “All’angeli là sopra faje fa du risate, ai cherubini imparaje che so’ le stornellat­e. Salutece San Pietro, stavolta quello vero, tanto già ce lo sanno chi è er Cavaliere Nero’’, riportando in vita quella che non è una barzellett­a, ma un opera d’arte di un paio di minuti. Il sonetto di Favino non giunge a caso. Al funerale di Alberto Sordi re di Roma, era il 27 febbraio 2003, Gigi Proietti salutava umilmente – “Sono quattro versi, forse non saranno nobilissim­i, Alberto mi perdonerà” – proprio in forma di sonetto, “che nella nostra città è stato sempre un modo di annunciare nascite e morti, prese in giro e riappacifi­cazioni”, scusandosi per il non saper fare discorsi di commiato. Lui che per tutta la vita, dal 1976 in avanti, aveva bombardato il pubblico di parole aprendo il baule dell’attore nel suo ‘A me gli occhi, please’, spettacolo scritto nel 1976 con l’aquilano Roberto Castri e nato per tappare un buco, poi diventato imprescind­ibile. Un trionfo di stili, satira, giochi di parole, prese per i fondelli (il teatro serio messo alla berlina), il prodotto del genio allo stato puro capace d’impression­are Eduardo, la sera della prima, seduto in quel Teatro Tenda che presto avrebbe lasciato il posto a sale più prestigios­e. Cinque date diventate dieci anni di repliche, fino all’Olimpico di Roma, col nuovo Millennio, davanti a 500mila spettatori nell’ennesima replica di un one man show dai tempi meno serrati di un tempo. Perché l’età è l’età, ma uno stadio è uno stadio.

Ma era il 27 febbraio dei 2003, si diceva, i funerali di Alberto Sordi. E il sonetto di Gigi Proietti si chiudeva così: “Tutta la città sbrillucci­ca de lacrime e ricordi, ‘che tu non sei sortanto un granne attore, tu sei tanto di più, sei Alberto Sordi”. Questo declamava l’ultimo re di Roma riferito al penultimo. Riascoltat­o oggi, basterebbe trovare una parola che sostituisc­a “ricordi” e faccia rima con “Proietti”, e quel sonetto varrebbe (almeno) per entrambi.

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KEYSTONE 'Ringraziam­o Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d'infanzia fino alla morte, che nel teatro si replica tutte le sere'
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