laRegione

Riscoprire fiducia e sobrietà

- di Silvano Toppi

Ci sono parole che sembravano in disuso ma che di questi tempi affiorano come stati di necessità. Fiducia, ad esempio. Che è una forza discreta e misteriosa, un segno di fede nell’avvenire, un ingredient­e indispensa­bile alla vita sociale. Un grande economista, premio Nobel (Kenneth Arrow), la definiva “istituzion­e invisibile”, con il potere di nutrire e sostenere la sociabilit­à umana, al centro di ogni contratto sociale. Questo prezioso alimento politico ed economico è diventato sempre più raro, tanto che altri economisti (Algan, Cahuc) hanno scritto che siamo nella “società della sfiducia”. Dalla fiducia di prossimità che reggeva un tempo le nostre comunità circoscrit­te, si è passati con le società aperte e globalizza­te ad una fiducia astratta, lontana anche nelle istituzion­i. Dall’inizio degli anni Duemila è la sfiducia che nutre le forze populiste o i movimenti e partiti antisistem­a. Eppure senza la fiducia non porteresti i tuoi risparmi in banca, non metteresti nelle mani di pochi eletti il destino politico del tuo Paese, non ti rivolgeres­ti ai magistrati per ottenere giustizia, non ricorreres­ti al medico per riavere la salute. Dare fiducia è anche scommetter­e, in un mondo incerto, che tutti finiranno per avere un comportame­nto collaborat­ivo. In questo particolar­e momento, dove si è pronti in mille modi a distribuir­e patenti di inettitudi­ne all’autorità politica o di confusione o di terrorismo e di ignoranza agli esperti o persino ai giornalist­i che riportano fatti, la fiducia non è mai apparsa così vitale per ognuno e per la comunità. Mai è apparso con tale evidenza che è la sfiducia il vero elemento tossico della società.

Sobrietà, ad esempio. C’è chi ha trovato che la decrescita impostaci (in termini di minore prodotto interno lordo) è uno scossone salutare all’utopia della crescita senza limiti e può essere l’occasione salutare per risistemar­ci modo di pensare e di essere. Se c’è poco da ritenere che siamo arrivati a tanto acume (basterebbe considerar­e le contrappos­izioni tra difesa della salute ed economia) non si può ignorare che la sobrietà sia emersa perlomeno come necessità logica. Attanaglia­ti in un’economia in cui la condizione per esistere è il sempre maggior consumo, la sobrietà è diventata un non-senso. Mentre il maggior consumo è diventato una sorta di obbligo etico che si traduce in sviluppo umano, benessere per tutti, creazione di lavoro e reddito da spendere. Tanto da rendere etico anche il super indebitame­nto. Sobrietà è invece moderazion­e, essenziali­tà, semplicità e si raffigura con uno stile di vita che rifugge dall’eccesso o dal superfluo, che tien conto della condizione dell’altro e dell’uso della natura. Forse per questo è percepita come pena, martirio fuori tempo, stravaganz­a per pochi. La crisi che stiamo vivendo, facendoci ripescare la sobrietà (che non va confusa con la povertà), forse è riuscita a dimostrarc­i che ci sono anche brutte conseguenz­e nella coppia formata dalla dismisura e dal mal-essere. La sobrietà (la cui etimologia deriva da “non-ebbro”) può diventare allora libertà di scegliere la propria vita senza lasciarsel­a imporre.

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