Caso Consonni, si medita una causa civile
Confermata l’assoluzione, non ci si arrende
‘Dura lex, sed lex’. Sarà pure un motto latino, ma per gli operai della Consonni Contract ha tutto il peso dell’attualità. Anche a loro è toccato piegarsi alla durezza della legge e accettare (loro malgrado) che l’imprenditore canturino Marco Consonni, finito in aula nell’ottobre del 2019, con l’accusa di usura nei loro confronti, sia stato assolto, in due gradi di giudizio e oggi in via definitiva, assieme agli altri sei protagonisti della vicenda. Ai loro occhi sentono di non avere avuto giustizia. Per tentare di riceverne almeno una parte non resta, ora, che presentarsi in Pretura, intentando una causa civile per risarcimento. «La porta resta aperta – conferma a ‘laRegione’ il sindacalista dell’Ocst Paolo Locatelli –. Vedremo. Il rischio, pure qui, che prima di arrivare in fondo alla procedura l’azienda fallisca, e si rimanga ancora con un pungo di mosche in mano, non è peregrino». Società che, in veste formale – risulta sempre iscritta a Registro di commercio –, è ancora attiva nonostante, ci fa notare Locatelli, le pendenze con i suoi creditori.
‘Caso esemplare di malaedilizia’
L’amarezza, non lo si nasconde, è tanta. Anche perché per portare alla luce le vessazioni subìte gli operai ci hanno messo la faccia. È solo grazie alle loro testimonianze – a cominciare dal capocantiere, pure lui a processo, che nel 2016 ha fatto scoppiare il caso segnalandolo all’Ocst – se si è squarciato il velo sulla ‘prassi’ in uso nell’impresa. Abitudini, come quella di taglieggiare le buste paga, che hanno portato a denunciare da parte del sindacato quello che è stato definito il più grave caso di malaedilizia mai conosciuto in Ticino. Dopo due sentenze di assoluzione, pronunciate prima dalla Corte delle Assise criminali, poi dalla Corte d’appello e revisione penale – davanti alla quale sono approdati tre ricorsi promossi dagli stessi lavoratori e dalla procuratrice pubblica Chiara Borelli –, all’Ocst non si è cambiata idea. «Lo confermo – ci dice senza tentennamenti Locatelli –. Si è trattato davvero di un caso esemplare, forte di dati e documenti puntuali. Il punto è che non si è entrati nel merito. E questo, idealmente, dal punto di vista della giustizia è un peccato».
Tutto è da far risalire a una sorta di cavillo tecnico che sul piano giuridico ha impedito di procedere nei confronti degli imputati. Decretato nell’ottobre del 2017 l’abbandono, per i quattro accusati principali, dei reati di estorsione aggravata, coazione e inganno aggravato, alla luce di una decisione del Tribunale federale non era possibile processare l’imprenditore (e con lui gli altri protagonisti) per usura. In effetti, per il principio ‘ne bis in idem’, non si può giudicare una persona due volte per lo stesso fatto.
Quelle promesse da marinaio agli operai
Per il sindacalista come per gli ex dipendenti della ditta con sede in piazza Boffalora a Chiasso e parte di un gruppo leader negli arredi a cinque stelle, in ogni caso il conto non è chiuso. «Ci sono almeno due cose interessanti da ritenere – ci fa notare Locateli –. Innanzitutto, durante il primo processo alle Criminali gli avvocati difensori dell’imprenditore, ma lo stesso Marco Consonni, hanno più volte ribadito che, a prescindere dal dibattimento, avrebbero tacitato i lavoratori; insomma, che c’era la disponibilità. Promessa poi non mantenuta. Una volta ‘incassate’ le due assoluzioni, Consonni non si è fatto più sentire. Potendo risparmiare...». Anzi, ha avanzato lui stesso una richiesta di indennizzo di circa 400mila franchi per danno economico e ingiusta carcerazione. Richiesta respinta in prima istanza dalla Corte presieduta dal giudice Mauro Ermani.
E il teorema che non si trattasse di usura
«C’è poi un’altra stravaganza – attira l’attenzione il sindacalista Ocst –. Gli stessi difensori si sono resi conto che dal punto di vista pratico la posizione del loro assistito era indifendibile. Il principale teorema poggiava, in effetti, sul fatto che non sussisteva reato di usura per mestiere perché questi lavoratori in Italia avrebbero guadagnato molto meno, ancorché mancasse una componente del salario». Più volte in aula era riecheggiato, infatti, che quella degli operai era stata una loro libera scelta.
«Oggi oltre alla frustrazione dei lavoratori che hanno lottato per avere un loro buon diritto, c’è, almeno da parte mia – ammette Locatelli –, la rabbia che per un tecnicismo procedurale questo processo non sia stato portato a termine, entrando nel merito». Il che avrebbe permesso di creare un precedente giuridico: «Avrebbe potuto anche fare scuola. Non me la sento però di dire che sia stato un errore – annota il sindacalista –. Il verdetto dell’Alta Corte di Losanna, che fa testo, è posteriore al decreto». A questo punto non resta che farsene una ragione.