Memoria, memoriale ed elezioni
“Uno dei miei studenti venne linciato quando ero il responsabile degli iscritti al Tuskegee Institute in Alabama”. Cosa accadde? gli chiedo. Silenzio. Solo lo sciabordio della cascata a muro di questo luogo che trasuda dolore e mestizia. Il professor Bert Phillips si commuove. Poi riprende la sua testimonianza: “Tornava da un comizio elettorale. Di notte. Si fermò a una stazione di servizio e usò il bagno riservato ai bianchi. Lo uccisero”. Sammy Younge Junior, attivista e veterano del Vietnam, aveva 21 anni. Venne linciato. Era il 1966, ma il suo nome non compare nell’incredibile “Memoriale per la pace e la giustizia”. Ottocento parallelepipedi metallici ricordano qui le 4’075 vittime dei linciaggi negli Stati Uniti, tra il 1877 e il 1950. Sono sculture massicce che penzolano da cavi metallici. Quasi un “memento” tetro dei molti che morirono impiccati a una fune. Come Calvin Mike, linciato nella contea di Calhoun in Georgia. Reo di democrazia: colpevole soltanto d’aver osato recarsi a votare.
“Il terrore razziale” lo hanno definito gli attivisti della Equal Justice Initiative, promotori di questo museo all’aperto unico in tutti gli Stati Uniti, qui a Montgomery in Alabama. “O ci sediamo a parlare o la spaccatura si farà sempre più profonda”, aggiunge il professor Phillips. “Noi – dice riferendosi al gruppo di afroamericani che comprende anche sua moglie e a una coppia di amici - siamo pronti al dialogo. Chissà se chi va ai comizi di Trump è disposto a dialogare con noi”. Chissà. Ormai non ci sono più comizi dopo queste contestatissime elezioni. Ma gli elettori afroamericani hanno parlato. Nella quiete dell’urna. Gridando il loro dissenso contro Trump.
Rosa Parks, Beulah e le altre
Il Memoriale sorge nella città che più di ogni altra in America mostra le arterie aperte delle contraddizioni razziali. Ci sono voluti due secoli esatti per eleggere un sindaco afroamericano qui, poco più di un anno fa. Montgomery era la capitale degli schiavi nel sud. Questi esseri umani sequestrati in Africa non solo venivano venduti all’asta: ma alcuni dei “negroes” erano persino messi in palio come premio di una lotteria. Un’infamia durata oltre due secoli. Fino al 1865. Ci sono voluti quattro anni di guerra civile e il Tredicesimo emendamento per abolire la schiavitù. La lunga marcia verso i diritti civili è passata anche da qui, da questa fermata d’autobus: lo ricorda tutt’oggi una targa commemorativa dove ogni giorno saliva Rosa Parks, l’icona della protesta non-violenta poi guidata da Martin Luther King. Il giovane pastore, all’epoca, era appena arrivato a Montgomery. Se lo ricorda anche Beulah Toney, che incontrò a Huntsville, qualche decina di chilometri più in là. Indossa una t-shirt col volto di Michelle Obama. “Oltre mezzo secolo fa aiutavo gli afro-americani a registrarsi per le elezioni, era quasi impossibile per loro”, mi spiega quest’anziana che ancor prima del Voting Rights Act divenne un’addetta all’ufficio elettorale nell’Alabama segregata. Ma qualcuno, di questi tempi, fatica ancora persino a votare alle normali elezioni. Comprese le ultime.
Dal memoriale al Kentucky
Dal memoriale alla memoria. Attica Scott, unica deputata afro-americana del Kentucky, mi mostra i mazzi di fiori deposti davanti al piccolo ristorantebarbeque di David McAtee, 53 anni. È stato ucciso il primo giugno scorso dalla Guardia Nazionale a Louisville. Gli agenti gli hanno sparato dapprima proiettili di gomma senza preavviso e poi – dopo la sua reazione con una pistola – l’hanno centrato con proiettili veri. Il capo della polizia è stato licenziato il giorno dopo. “Ma nessun agente è ancora stato incriminato” mi ha detto l’avvocato di David. Certo, non un linciaggio come quelli documentati a Montgomery. Ma un altro – l’ennesimo – nome che allunga l’elenco degli ammazzati per eccesso di forza dalla polizia. Proprio nella città famosa in America perché ci è nato Muhammad Ali, cresciuto nel quartiere nero vicino al ristorante. Oggi Louisville è uno degli epicentri delle proteste razziali, dopo la morte della 26enne Breonna Taylor per mano degli agenti durante un blitz anti-droga finito male.
Dalla piazza all’urna
Proteste e voto, rabbia e affluenza. C’è un legame stretto tra i mesi di subbuglio antirazzista qui negli Stati Uniti e le lunghe code ai seggi, o le montagne di schede elettorali spedite in anticipo via posta. “Sono qui a protestare a nome dei miei genitori, dei miei nonni, dei miei antenati” mi aveva detto un ragazzone afro-americano davanti alla Casa Bianca. Era la primissima notte di proteste contro il razzismo a Washington. George Floyd era appena stato soffocato da un poliziotto. Un dolore profondo espresso poi nei mesi di manifestazioni e cortei al grido di “No justice, no peace”. Quel rancore intergenerazionale ha trovato uno sfogo anche nella partecipazione al voto.
Il sostegno dei neri a Detroit e Philadelphia ha portato Joe Biden alla vittoria in Michigan e Pennsylvania. “Ora speriamo ci sia pace e non più divisioni dopo 4 anni di conflitto continuo”, sono le parole di Stacey Mentor, arrivata in bici in questo parcheggio di Wilmington dove Biden e Kamala Harris stanno per tenere il discorso della vittoria. Indossa una felpa della Alpha-Kappa-Alpha, la stessa confraternita universitaria della Harris. “Lei ispirerà altre ragazze”, sorride Stacey. “E dimostra che si può arrivare ovunque. Il cielo è il limite”. Quel cielo dove ora danzano i fuochi d’artificio nella notte del Delaware. Il resto è cronaca.