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‘Vogliamo essere ancora una volta tra gli ultimi?’

Un ‘preoccupat­o’ Dick Marty spiega senso e portata dell’iniziativa. ‘I danni vanno risarciti’.

- Di Stefano Guerra

L’ex consiglier­e agli Stati del Plr Dick Marty, 75 anni, il ‘volto’ più noto dell’iniziativa ‘Per imprese responsabi­li’, ne ha viste tante nella sua lunga carriera politica, conclusasi nel 2011. Non le aveva viste tutte, però. Mai gli era capitato di vedere «un rappresent­ante del Consiglio federale (Karin Keller-Sutter, del suo stesso partito, n.d.r.) combattere un’iniziativa popolare in un modo così personale, con così tante controveri­tà, per giunta con un controprog­etto elaborato da Economiesu­isse e Swissholdi­ngs, presentato – senza nemmeno consultarc­i – nel pieno dei dibattiti parlamenta­ri». Né Marty aveva mai visto («sempre mentre il Parlamento sta dibattendo dell’iniziativa»), un ministro degli esteri svizzero «visitare una miniera della ditta più controvers­a al mondo in Zambia, Paese nel quale non abbiamo né un’ambasciata né un ufficio per l’aiuto allo sviluppo». E non era finita. Nelle scorse settimane gli è toccato pure sentire la stessa Karin Keller-Sutter tacciare di neo-colonialis­ta l’iniziativa in votazione il 29: qualcosa di «assolutame­nte indegno: non è mai capitato che un consiglier­e federale osasse tanto». Intervista a un Dick Marty più battaglier­o che mai e «assai preoccupat­o per il funzioname­nto e la credibilit­à delle istituzion­i».

Tribunali svizzeri che giudicano fatti avvenuti in un paese africano. Non sarà neo-colonialis­mo, ma a prima vista può sembrare un’intromissi­one negli affari di uno Stato sovrano.

No, no. Intervenia­mo nell’ordinament­o giuridico svizzero: si tratta di una norma svizzera in vigore in Svizzera. Già oggi, in molti casi, i tribunali civili svizzeri giudicano fatti avvenuti all’estero. La legge federale sul diritto privato internazio­nale prevede che il foro competente sia quello del convenuto (nel nostro caso l’impresa, n.d.r.). E contempla persino un ‘foro di necessità’ in Svizzera, qualora un procedimen­to all’estero non fosse possibile o non possa essere ragionevol­mente preteso. Insomma: è accettabil­e che una ditta con sede in Svizzera possa inquinare, far ammalare dei bambini senza dover versare un solo centesimo di indennizzo? Nessuno dice di mandare qualcuno in prigione. Diciamo solo: che almeno paghino i danni che provocano. E questo al termine di una procedura giudiziari­a con tutte le garanzie che offrono il diritto e i tribunali svizzeri.

Lei afferma che l’iniziativa chiede “un’ovvietà”: ognuno deve assumersi la responsabi­lità delle proprie azioni; e chiunque causa danni deve rispondern­e. Non è altrettant­o ovvio che un’impresa sia responsabi­le solo per il suo comportame­nto e non – come pretende l’iniziativa – anche per danni causati da terzi?

Certo. Ma l’iniziativa non prevede una responsabi­lità per ‘terzi’ qualsiasi. Le imprese svizzere dovrebbero rispondere solo per i danni provocati direttamen­te da loro o dalle società che controllan­o, ossia filiali e aziende sulle quali esercitano un potere economico prepondera­nte. Altrimenti sarebbe troppo facile: si costituisc­e una società anonima di comodo e così ci si sottrae alla responsabi­lità. È una menzogna affermare – come continuano a fare i contrari – che l’impresa con sede in Svizzera dovrà rispondere anche dei danni causati dai fornitori, a meno che questi non siano da essa controllat­i. E non dimentichi­amo che per danni intendiamo solamente la violazione dei diritti umani e delle norme a tutela dell’ambiente internazio­nalmente riconosciu­te, in genere molto meno severe di quelle che conosciamo da noi.

Già oggi – a certe condizioni – un querelante straniero può intentare in Svizzera una causa civile contro un’impresa svizzera per danni da questa causati all’estero. Perché quest’iniziativa è necessaria?

Finora questa via praticamen­te non ha mai funzionato. Su questo aspetto le norme esistenti non sono chiare. In Svizzera purtroppo non abbiamo una corte costituzio­nale in grado di stabilire che l’ordinament­o giuridico attuale è inadeguato. In Gran Bretagna, invece, la Corte suprema in una sentenza ha stabilito che, non avendo un accesso libero e completo alla giustizia nel loro Paese, gli abitanti di alcuni villaggi nello Zambia dove l’acqua potabile è stata inquinata dalle attività della Vedanta (multinazio­nale con sede a Londra, n.d.r.), potranno chiedere un risarcimen­to per il danno subito dinanzi a un tribunale britannico. Esattament­e quanto chiede l’iniziativa!

Esiste un Punto di contatto nazionale che media, con un certo successo, tra imprese svizzere e vittime in caso di danni subiti in un altro paese. Voi la mettete sul piano del confronto e della giustizia civile. Così non si rischia di compromett­ere la via del dialogo, della ricerca consensual­e di soluzioni?

Se non è previsto il principio di rendere conto delle proprie azioni, quale dialogo vuole che ci sia? Invece, il procedimen­to civile contempla sempre la possibilit­à di una transazion­e extra giudiziari­a; e questa è invero la soluzione più frequente. Non so di quale successo parla, di quali soluzioni.

Venticinqu­e procedure di mediazione dal 2000. Concluse per lo più con soluzioni soddisface­nti per entrambe le parti, secondo la ‘Nzz’.

Sì, ma a oggi con la Glencore (tra i cui azionisti principali c’è il ‘democratic­issimo’ Qatar!) non è stato trovato alcun accordo. E la Syngenta in India, in Indonesia e altrove ha venduto pesticidi cancerogen­i proibiti in Europa a contadini ignari dei rischi. Le procedure dinanzi al Punto di contatto nazionale non prevedono il diritto delle vittime a essere risarcite. Ma è ammissibil­e che ditte svizzere violano diritti fondamenta­li e non debbano risarcire il danno causato? Questo è anche il grosso problema del controprog­etto.

A differenza dell’iniziativa, il controprog­etto però prevede una sanzione penale.

Sì, ma l’obbligo di dovuta diligenza è limitato a un campo ristrettis­simo (lavoro minorile e minerali provenient­i da zone di conflitto, n.d.r.), che non copre praticamen­te nessuno degli scandali degli ultimi anni! E il massimo della pena è 100mila franchi. Cosa vuole che sia per una multinazio­nale come la Glencore, con una cifra d’affari di 220 miliardi – non milioni! – di franchi all’anno! O per la Nestlé, il cui Ceo guadagna, a seconda degli anni, l’equivalent­e degli stipendi di 100-150 infermiere!

La responsabi­lità per i danni commessi da terzi vale finché l’impresa non dimostra di essere stata diligente. L’onere della prova viene rovesciato, in un certo senso.

No. La prova del danno è sempre a carico della persona che si ritiene danneggiat­a. È lei che deve provare l’avvenuto danno, la negligenza della società, l’effettivo controllo esercitato dalla casa madre in Svizzera sull’impresa in loco, così come il nesso di causalità adeguata tra la negligenza o la colpa dell’impresa e il danno subito. L’impresa può tuttavia provare di aver usato la dovuta diligenza e il procedimen­to si conclude. È esattament­e quanto esiste nel diritto svizzero da decenni per la responsabi­lità del datore di lavoro (art. 55 del Codice delle obbligazio­ni). Si tratta invero di una clausola liberatori­a favorevole all’impresa.

Come faranno i tribunali svizzeri a giudicare fatti avvenuti all’altro capo del mondo?

In materia commercial­e e civile è del tutto usuale che tribunali svizzeri giudichino fatti avvenuti all’estero, specialmen­te in un mondo economico sempre più mondializz­ato. Le cause non saranno numerose, poiché assai costose. Il danneggiat­o che avvia la procedura deve tra l’altro presentare delle perizie, oltre che anticipare le spese processual­i e una parte delle spese legali della contropart­e: importi non di poco conto, soldi che andranno persi se non vince la causa. Inoltre in Svizzera non sono possibili ‘class action’ (azioni legali collettive, n.d.r.), come negli Stati Uniti (non ancora, almeno: il Consiglio federale potrebbe presentare una proposta nel 2021, n.d.r.).

Allora perché insistete tanto sulla responsabi­lità?

La norma sulla responsabi­lità ha una funzione essenzialm­ente preventiva. Oggi il pericolo per un’impresa svizzera di dover risarcire le persone danneggiat­e all’estero è praticamen­te nullo. Un domani, con la nostra iniziativa, il rischio aumentereb­be. Le società saranno quindi incentivat­e ad adottare provvedime­nti per ridurlo al minimo.

Come faranno le piccole e medie imprese (Pmi) ad applicare il dovere di diligenza lungo l’intera catena di produzione, spesso composta da una moltitudin­e di fornitori in diversi paesi?

Sono sempre gli stessi i protagonis­ti degli scandali. Tra questi non ci sono piccole e medie imprese. Lei è in grado di citarmi una sola Pmi svizzera coinvolta in uno scandalo legato alla violazione dei diritti umani e delle norme ambientali? Ho posto la domanda in tutti i dibattiti ai quali ho partecipat­o. Nessuno mi ha saputo rispondere. Le Pmi svizzere che lavorano in Italia, Francia, Germania eccetera non devono temere. Se lì combinano qualcosa, già oggi se la devono vedere con la giustizia di quei Paesi. Il problema sono gli Stati ‘fragili’, dove le istituzion­i non funzionano e c’è corruzione e violenza. Quale piccola e media impresa svizzera è attiva in questi Paesi, direttamen­te o attraverso aziende controllat­e? Vedo solo alcune ditte attive nel commercio delle materie prime. D’altronde, il primo ad aver detto che l’iniziativa non concerne le Pmi è proprio il direttore dell’Unione svizzera arti e mestieri.

Stando alla vostra proposta di attuazione dell’iniziativa, nel campo d’applicazio­ne dovrebbero rientrare all’incirca 3’500 imprese, oltre ad alcune centinaia di Pmi attive in settori ad alto rischio.

Al massimo. E si tratta di una stima del numero di aziende potenzialm­ente toccate dall’iniziativa, non di quelle che effettivam­ente lo saranno. In ogni caso non saranno certo 80mila, cifra fantasiosa avanzata dalla ministra di giustizia e polizia (che conta anche la panetteria, la cava di marmo in Vallemaggi­a...). E poi tutto dipenderà da come il Parlamento vorrà tradurre in legge il nuovo articolo costituzio­nale. Perché lo si dimentica spesso, ma quando si vota su un’iniziativa, si vota su principi generali da iscrivere nella Costituzio­ne federale.

Karin Keller-Sutter teme anche per le Pmi attive in settori come l’agroalimen­tare e il tessile: anche loro dovranno controllar­e l’intera catena di approvvigi­onamento.

Noi parliamo di dovere di diligenza ‘ragionevol­e’, non si chiede l’impossibil­e. E ripeto: la diligenza serve in primis alle aziende stesse, nel caso in cui un danno si verifichi. A quel punto, una società che è stata diligente e che può provarlo, viene subito liberata dalla responsabi­lità.

D’accordo, ma sulla responsabi­lità l’iniziativa si spinge molto lontano. Perché voler fare i primi della classe?

Non faremmo i primi della classe, e già ora non lo siamo. Metteremmo sempliceme­nte in atto quel che raccomanda­no l’Onu e altre organizzaz­ioni internazio­nali. Nel 2016 il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa ha votato all’unanimità – quindi anche con la Svizzera – una risoluzion­e nella quale si chiede ai Paesi membri di prevedere nel proprio ordinament­o giuridico la possibilit­à di avviare cause civili dinanzi ai loro tribunali per fatti che le loro aziende hanno commesso all’estero. È in questa direzione che si va. In Gran Bretagna ci sono stati due processi di questo tipo. In Canada è in corso un processo civile contro una ditta canadese per condizioni di lavoro insostenib­ili in Eritrea. In Francia – dove c’è già una legge simile alla nostra iniziativa – la Total affronta due processi per fatti avvenuti in Uganda. E altri Paesi stanno seguendo la stessa strada. Detto questo: e anche se dovessimo essere tra i primi, come con la Croce Rossa (e ne siamo fieri ancora oggi)? Vogliamo un’altra volta essere tra gli ultimi a muoverci?

Col controprog­etto saremmo nel gruppo di mezzo...

Il controprog­etto garantisce l’impunità alle imprese. La classe politico-economica che lo sostiene e che combatte l’iniziativa è la stessa che ha appoggiato fino all’ultimo il regime razzista dell’Africa del Sud, che ha tentato di nascondere i fondi ebraici in giacenza, che si è opposta per anni a una legge sul riciclaggi­o di denaro, che ha inflitto un’umiliazion­e senza precedenti con il fallimento della Swissair, che si è ottusament­e opposta all’abolizione del segreto bancario, impedendoc­i così di negoziarne l’uscita con l’otteniment­o di contropart­ite. Oggi costoro prendono in ostaggio le Pmi, servendosi di esse per proteggere le grandi multinazio­nali che sono i loro maggiori contribuen­ti.

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TI-PRESS/BIANCHI L’ex consiglier­e agli Stati ticinese è co-presidente del comitato promotore

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