‘Vogliamo essere ancora una volta tra gli ultimi?’
Un ‘preoccupato’ Dick Marty spiega senso e portata dell’iniziativa. ‘I danni vanno risarciti’.
L’ex consigliere agli Stati del Plr Dick Marty, 75 anni, il ‘volto’ più noto dell’iniziativa ‘Per imprese responsabili’, ne ha viste tante nella sua lunga carriera politica, conclusasi nel 2011. Non le aveva viste tutte, però. Mai gli era capitato di vedere «un rappresentante del Consiglio federale (Karin Keller-Sutter, del suo stesso partito, n.d.r.) combattere un’iniziativa popolare in un modo così personale, con così tante controverità, per giunta con un controprogetto elaborato da Economiesuisse e Swissholdings, presentato – senza nemmeno consultarci – nel pieno dei dibattiti parlamentari». Né Marty aveva mai visto («sempre mentre il Parlamento sta dibattendo dell’iniziativa»), un ministro degli esteri svizzero «visitare una miniera della ditta più controversa al mondo in Zambia, Paese nel quale non abbiamo né un’ambasciata né un ufficio per l’aiuto allo sviluppo». E non era finita. Nelle scorse settimane gli è toccato pure sentire la stessa Karin Keller-Sutter tacciare di neo-colonialista l’iniziativa in votazione il 29: qualcosa di «assolutamente indegno: non è mai capitato che un consigliere federale osasse tanto». Intervista a un Dick Marty più battagliero che mai e «assai preoccupato per il funzionamento e la credibilità delle istituzioni».
Tribunali svizzeri che giudicano fatti avvenuti in un paese africano. Non sarà neo-colonialismo, ma a prima vista può sembrare un’intromissione negli affari di uno Stato sovrano.
No, no. Interveniamo nell’ordinamento giuridico svizzero: si tratta di una norma svizzera in vigore in Svizzera. Già oggi, in molti casi, i tribunali civili svizzeri giudicano fatti avvenuti all’estero. La legge federale sul diritto privato internazionale prevede che il foro competente sia quello del convenuto (nel nostro caso l’impresa, n.d.r.). E contempla persino un ‘foro di necessità’ in Svizzera, qualora un procedimento all’estero non fosse possibile o non possa essere ragionevolmente preteso. Insomma: è accettabile che una ditta con sede in Svizzera possa inquinare, far ammalare dei bambini senza dover versare un solo centesimo di indennizzo? Nessuno dice di mandare qualcuno in prigione. Diciamo solo: che almeno paghino i danni che provocano. E questo al termine di una procedura giudiziaria con tutte le garanzie che offrono il diritto e i tribunali svizzeri.
Lei afferma che l’iniziativa chiede “un’ovvietà”: ognuno deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni; e chiunque causa danni deve risponderne. Non è altrettanto ovvio che un’impresa sia responsabile solo per il suo comportamento e non – come pretende l’iniziativa – anche per danni causati da terzi?
Certo. Ma l’iniziativa non prevede una responsabilità per ‘terzi’ qualsiasi. Le imprese svizzere dovrebbero rispondere solo per i danni provocati direttamente da loro o dalle società che controllano, ossia filiali e aziende sulle quali esercitano un potere economico preponderante. Altrimenti sarebbe troppo facile: si costituisce una società anonima di comodo e così ci si sottrae alla responsabilità. È una menzogna affermare – come continuano a fare i contrari – che l’impresa con sede in Svizzera dovrà rispondere anche dei danni causati dai fornitori, a meno che questi non siano da essa controllati. E non dimentichiamo che per danni intendiamo solamente la violazione dei diritti umani e delle norme a tutela dell’ambiente internazionalmente riconosciute, in genere molto meno severe di quelle che conosciamo da noi.
Già oggi – a certe condizioni – un querelante straniero può intentare in Svizzera una causa civile contro un’impresa svizzera per danni da questa causati all’estero. Perché quest’iniziativa è necessaria?
Finora questa via praticamente non ha mai funzionato. Su questo aspetto le norme esistenti non sono chiare. In Svizzera purtroppo non abbiamo una corte costituzionale in grado di stabilire che l’ordinamento giuridico attuale è inadeguato. In Gran Bretagna, invece, la Corte suprema in una sentenza ha stabilito che, non avendo un accesso libero e completo alla giustizia nel loro Paese, gli abitanti di alcuni villaggi nello Zambia dove l’acqua potabile è stata inquinata dalle attività della Vedanta (multinazionale con sede a Londra, n.d.r.), potranno chiedere un risarcimento per il danno subito dinanzi a un tribunale britannico. Esattamente quanto chiede l’iniziativa!
Esiste un Punto di contatto nazionale che media, con un certo successo, tra imprese svizzere e vittime in caso di danni subiti in un altro paese. Voi la mettete sul piano del confronto e della giustizia civile. Così non si rischia di compromettere la via del dialogo, della ricerca consensuale di soluzioni?
Se non è previsto il principio di rendere conto delle proprie azioni, quale dialogo vuole che ci sia? Invece, il procedimento civile contempla sempre la possibilità di una transazione extra giudiziaria; e questa è invero la soluzione più frequente. Non so di quale successo parla, di quali soluzioni.
Venticinque procedure di mediazione dal 2000. Concluse per lo più con soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti, secondo la ‘Nzz’.
Sì, ma a oggi con la Glencore (tra i cui azionisti principali c’è il ‘democraticissimo’ Qatar!) non è stato trovato alcun accordo. E la Syngenta in India, in Indonesia e altrove ha venduto pesticidi cancerogeni proibiti in Europa a contadini ignari dei rischi. Le procedure dinanzi al Punto di contatto nazionale non prevedono il diritto delle vittime a essere risarcite. Ma è ammissibile che ditte svizzere violano diritti fondamentali e non debbano risarcire il danno causato? Questo è anche il grosso problema del controprogetto.
A differenza dell’iniziativa, il controprogetto però prevede una sanzione penale.
Sì, ma l’obbligo di dovuta diligenza è limitato a un campo ristrettissimo (lavoro minorile e minerali provenienti da zone di conflitto, n.d.r.), che non copre praticamente nessuno degli scandali degli ultimi anni! E il massimo della pena è 100mila franchi. Cosa vuole che sia per una multinazionale come la Glencore, con una cifra d’affari di 220 miliardi – non milioni! – di franchi all’anno! O per la Nestlé, il cui Ceo guadagna, a seconda degli anni, l’equivalente degli stipendi di 100-150 infermiere!
La responsabilità per i danni commessi da terzi vale finché l’impresa non dimostra di essere stata diligente. L’onere della prova viene rovesciato, in un certo senso.
No. La prova del danno è sempre a carico della persona che si ritiene danneggiata. È lei che deve provare l’avvenuto danno, la negligenza della società, l’effettivo controllo esercitato dalla casa madre in Svizzera sull’impresa in loco, così come il nesso di causalità adeguata tra la negligenza o la colpa dell’impresa e il danno subito. L’impresa può tuttavia provare di aver usato la dovuta diligenza e il procedimento si conclude. È esattamente quanto esiste nel diritto svizzero da decenni per la responsabilità del datore di lavoro (art. 55 del Codice delle obbligazioni). Si tratta invero di una clausola liberatoria favorevole all’impresa.
Come faranno i tribunali svizzeri a giudicare fatti avvenuti all’altro capo del mondo?
In materia commerciale e civile è del tutto usuale che tribunali svizzeri giudichino fatti avvenuti all’estero, specialmente in un mondo economico sempre più mondializzato. Le cause non saranno numerose, poiché assai costose. Il danneggiato che avvia la procedura deve tra l’altro presentare delle perizie, oltre che anticipare le spese processuali e una parte delle spese legali della controparte: importi non di poco conto, soldi che andranno persi se non vince la causa. Inoltre in Svizzera non sono possibili ‘class action’ (azioni legali collettive, n.d.r.), come negli Stati Uniti (non ancora, almeno: il Consiglio federale potrebbe presentare una proposta nel 2021, n.d.r.).
Allora perché insistete tanto sulla responsabilità?
La norma sulla responsabilità ha una funzione essenzialmente preventiva. Oggi il pericolo per un’impresa svizzera di dover risarcire le persone danneggiate all’estero è praticamente nullo. Un domani, con la nostra iniziativa, il rischio aumenterebbe. Le società saranno quindi incentivate ad adottare provvedimenti per ridurlo al minimo.
Come faranno le piccole e medie imprese (Pmi) ad applicare il dovere di diligenza lungo l’intera catena di produzione, spesso composta da una moltitudine di fornitori in diversi paesi?
Sono sempre gli stessi i protagonisti degli scandali. Tra questi non ci sono piccole e medie imprese. Lei è in grado di citarmi una sola Pmi svizzera coinvolta in uno scandalo legato alla violazione dei diritti umani e delle norme ambientali? Ho posto la domanda in tutti i dibattiti ai quali ho partecipato. Nessuno mi ha saputo rispondere. Le Pmi svizzere che lavorano in Italia, Francia, Germania eccetera non devono temere. Se lì combinano qualcosa, già oggi se la devono vedere con la giustizia di quei Paesi. Il problema sono gli Stati ‘fragili’, dove le istituzioni non funzionano e c’è corruzione e violenza. Quale piccola e media impresa svizzera è attiva in questi Paesi, direttamente o attraverso aziende controllate? Vedo solo alcune ditte attive nel commercio delle materie prime. D’altronde, il primo ad aver detto che l’iniziativa non concerne le Pmi è proprio il direttore dell’Unione svizzera arti e mestieri.
Stando alla vostra proposta di attuazione dell’iniziativa, nel campo d’applicazione dovrebbero rientrare all’incirca 3’500 imprese, oltre ad alcune centinaia di Pmi attive in settori ad alto rischio.
Al massimo. E si tratta di una stima del numero di aziende potenzialmente toccate dall’iniziativa, non di quelle che effettivamente lo saranno. In ogni caso non saranno certo 80mila, cifra fantasiosa avanzata dalla ministra di giustizia e polizia (che conta anche la panetteria, la cava di marmo in Vallemaggia...). E poi tutto dipenderà da come il Parlamento vorrà tradurre in legge il nuovo articolo costituzionale. Perché lo si dimentica spesso, ma quando si vota su un’iniziativa, si vota su principi generali da iscrivere nella Costituzione federale.
Karin Keller-Sutter teme anche per le Pmi attive in settori come l’agroalimentare e il tessile: anche loro dovranno controllare l’intera catena di approvvigionamento.
Noi parliamo di dovere di diligenza ‘ragionevole’, non si chiede l’impossibile. E ripeto: la diligenza serve in primis alle aziende stesse, nel caso in cui un danno si verifichi. A quel punto, una società che è stata diligente e che può provarlo, viene subito liberata dalla responsabilità.
D’accordo, ma sulla responsabilità l’iniziativa si spinge molto lontano. Perché voler fare i primi della classe?
Non faremmo i primi della classe, e già ora non lo siamo. Metteremmo semplicemente in atto quel che raccomandano l’Onu e altre organizzazioni internazionali. Nel 2016 il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa ha votato all’unanimità – quindi anche con la Svizzera – una risoluzione nella quale si chiede ai Paesi membri di prevedere nel proprio ordinamento giuridico la possibilità di avviare cause civili dinanzi ai loro tribunali per fatti che le loro aziende hanno commesso all’estero. È in questa direzione che si va. In Gran Bretagna ci sono stati due processi di questo tipo. In Canada è in corso un processo civile contro una ditta canadese per condizioni di lavoro insostenibili in Eritrea. In Francia – dove c’è già una legge simile alla nostra iniziativa – la Total affronta due processi per fatti avvenuti in Uganda. E altri Paesi stanno seguendo la stessa strada. Detto questo: e anche se dovessimo essere tra i primi, come con la Croce Rossa (e ne siamo fieri ancora oggi)? Vogliamo un’altra volta essere tra gli ultimi a muoverci?
Col controprogetto saremmo nel gruppo di mezzo...
Il controprogetto garantisce l’impunità alle imprese. La classe politico-economica che lo sostiene e che combatte l’iniziativa è la stessa che ha appoggiato fino all’ultimo il regime razzista dell’Africa del Sud, che ha tentato di nascondere i fondi ebraici in giacenza, che si è opposta per anni a una legge sul riciclaggio di denaro, che ha inflitto un’umiliazione senza precedenti con il fallimento della Swissair, che si è ottusamente opposta all’abolizione del segreto bancario, impedendoci così di negoziarne l’uscita con l’ottenimento di contropartite. Oggi costoro prendono in ostaggio le Pmi, servendosi di esse per proteggere le grandi multinazionali che sono i loro maggiori contribuenti.