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Trump, disimpegno in Medio Oriente

Contingent­i ridotti in Iraq e Afghanista­n, ma ora nel mirino c’è l’Iran nucleare

- Di Lorenzo Erroi

‘America first’. Prima di andarsene dalla Casa Bianca, Donald Trump vuole mantenere la promessa di riportare a casa parecchi soldati americani dai fronti di Afghanista­n e Iraq. E anche se nel frattempo giocherell­a con l’idea di attaccare l’Iran per punirne il timido riarmo nucleare, la notizia principale è la ritirata: entro il 15 gennaio 2021, cinque giorni prima di lasciare il potere a Joe Biden, il presidente uscente intende richiamare dai teatri mediorient­ali 2’500 soldati.

Non saranno dunque tutti a casa per quella data, come annunciato in ottobre su Twitter: si parla della riduzione ‘solo’ d’un terzo dell’impegno che oggi vede schierati 4’500 soldati in Afghanista­n e 3mila in Iraq (diventereb­bero 2’500 in ciascun paese).

È significat­ivo che a ufficializ­zare la decisione sia stato quel Christophe­r Miller che ha sostituito la settimana scorsa il Segretario della Difesa Mark Esper, per nulla convinto dall’idea di un ulteriore disimpegno. Come molti osservator­i, Esper si era detto particolar­mente preoccupat­o dalla situazione in Afghanista­n, nazione divisa che rischia di tornare nelle mani dei Talebani; gli stessi che dopo l’11 settembre 2001 avevano spinto l’allora presidente George W. Bush a spedire gli (altrui) stivali nel fango. Sappiamo poi com’è andata, ma secondo Esper – che aveva affidato a un memo interno le sue perplessit­à – non ci sarebbero ancora le condizioni per una riduzione delle truppe. Un giudizio condiviso dalla catena di comando, inclusi il generale dei marine e capo del Comando centrale Kenneth McKenzie e il comandante della missione Nato in loco, il Generale Austin Miller. Perfino il leader della maggioranz­a al Senato Mitch McConnell – il quale sostiene ancora Trump, forse più per opportunis­mo che per convinzion­e – aveva paragonato le promesse sui social “all’umiliante partenza da Saigon nel 1975”.

Ma Trump deve aver deciso che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai suoi generali, o almeno a quelli che non la pensano come lui. Non si spiegano altrimenti le ‘purghe’ effettuate alla Difesa subito dopo la sconfitta elettorale, con la promozione a policy maker di un manipolo di fedelissim­i quali Miller, il Generale Anthony Tata – secondo cui Obama sarebbe un terrorista musulmano – e Michael Ellis, diventato consiglier­e per la Sicurezza nazionale.

Un cambiament­o che ha permesso di accelerare una ritirata almeno parziale, per far vedere che si sta chiudendo il libro su vent’anni di ‘regime change’, sebbene si rischi di schiacciar­e tra le pagine i civili inermi. Difficilme­nte, infatti, un indebolime­nto della stampella americana sarà compensato dalle forze locali o da quelle degli altri alleati Nato, che dipendono proprio dalla struttura Usa per molte missioni e potrebbero accodarsi all’exit strategy.

Questo nonostante Miller prometta che il rientro delle truppe “non equivale a un cambiament­o” nelle politiche e negli obiettivi strategici di Washington: “Non si riducono le nostre capacità”, ha tagliato corto. Nei giorni scorsi si era parlato anche di un prosciugam­ento del contingent­e di 700 soldati in Somalia, paese prossimo alle elezioni e minacciato da al-Shabaab, alleato di al-Qaida: un’ipotesi che resta da confermare.

Nel frattempo, il ‘New York Times’ riporta anche qualche tentazione aggressiva d’un Trump che vuole lasciare agli storici più materiale possibile. Nello specifico, il presidente avrebbe valutato l’ipotesi di un attacco contro le infrastrut­ture nucleari iraniane, in particolar­e quella di Natanz. Questo dopo che nei giorni scorsi l’Agenzia internazio­nale per l’energia atomica (Aiea) aveva stimato le riserve d’uranio della repubblica islamica a un livello 12 volte superiore a quanto permesso dall’accordo di Vienna del 2015. Ovvero quell’accordo multilater­ale che doveva essere il fiore all’occhiello della politica estera di Barack Obama, ma è stato abbandonat­o dal suo successore nel 2018. Col risultato che ora anche Teheran se ne approfitta e potrebbe essere capace d’allestire due testate nucleari, anche se ci vorrebbero mesi.

Secondo Trump, evidenteme­nte, a questo punto un attacco missilisti­co o informatic­o otterrebbe più di mille trattative. Ma i gallonati che lo circondano temono una forte destabiliz­zazione dell’intera area: così la pensano il capo di Stato maggiore Mark Milley, il vicepresid­ente Mike Pence, il Segretario di Stato Mike Pompeo – quello secondo il quale “ci sarà un’agevole transizion­e verso un secondo mandato di Trump” – e perfino lo stesso Christophe­r Miller. Difficilme­nte poi un attacco militare sarebbe ben visto dalla base di Trump, che preferisce l’isolamento.

Proprio in Medio Oriente il presidente ha ottenuto il suo massimo successo diplomatic­o: una certa stabilità tramite la ripresa di alleanze tradiziona­li con Israele, Egitto e Arabia Saudita, la loro estensione agli Emirati, al Bahrein e al Sudan, e quindi il riconoscim­ento d’Israele da parte dei maggiori attori della regione. Assurdo mettere tutto a rischio proprio ora.

Intanto, al momento di andare in stampa, alcuni razzi katyusha si erano appena schiantati nella zona verde di Baghdad, poco lontano dall’ambasciata Usa e nonostante una tregua: un’azione che potrebbe rivelarsi un avvertimen­to delle milizie filoirania­ne.

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KEYSTONE Intanto rotolano le teste alla Difesa
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KEYSTONE Christophe­r Miller

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