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La democrazia liberale è ancora in salute?

La democrazia è in pericolo? È ancora adeguata ai tempi? Il Covid la sta uccidendo?

- Di Andrea Ghiringhel­li, storico

La democrazia è in pericolo? La democrazia è in salute? È ancora adeguata ai nuovi tempi?

E il Covid sta uccidendo la democrazia? Questi interrogat­ivi li ritroviamo ovunque e non si risparmian­o convegni e seminari sull’argomento. Ma solo pochi decenni fa queste domande sarebbero state considerat­e delle stupide provocazio­ni perché la risposta era scontata.

Ce lo disse nel 1989 un politologo quarantenn­e di Chicago: caduto il muro di Berlino, sconfitti i vari totalitari­smi di destra e di sinistra, finita la guerra fredda, la democrazia liberale non aveva più da temere ed era diventata la forma definitiva di governo destinata a conquistar­e il mondo. Il politologo lo raccontò in un best seller di successo, ‘La fine della storia e l’ultimo uomo’. Numerosi gli applausi entusiasti e ci fu chi pensò di affrettare i tempi e di esportare il ‘prodotto’, magari con qualche fucile in bella vista per convincere i refrattari. Ma gli assertori della teoria si sbagliaron­o e oggi i pareri volgono al pessimismo perché si consolidan­o alternativ­e non particolar­mente allettanti.

Gli studiosi vedono nero

I titoli di recenti saggi sull’argomento sono eloquenti: ‘Come la democrazia fallisce’, ‘Così finisce la democrazia’, ‘Come muoiono le democrazie’, ‘Democrazia senza’, ‘L’autunno della liberaldem­ocrazia’, ‘Contro la democrazia’, ‘Deficit democratic­i’, ‘Democrazia avvelenata’, ‘Guerra alla democrazia’, ‘Democrazie senza democrazia’, ‘La minaccia populista alla democrazia liberale’. Perfino Sabino Cassese, insigne giurista sempre equilibrat­o nei giudizi, pur ribadendo che la democrazia ‘è il solo modo di continuare a guardare con fiducia al futuro’, ne ammette l’estrema fragilità: parecchi segnali ci indicano che la democrazia liberale ha la febbre alta. C’è tuttavia qualche raro ottimista che cerca di confortarc­i: fa la conta delle democrazie nel mondo e conclude che il loro numero non è diminuito. La deduzione è fallace, tralascia un dettaglio: sono tanti i paesi a mettersi il cappello della democrazia, ma a fare la differenza è quello che sta sotto, il contenuto. Dopo puntuale verifica, Democracy Index, piattaform­a dell’Economist, ci conferma che solo 22 paesi su 167 possono dirsi veramente democrazie complete, che, oltre al rispetto della volontà popolare, garantisco­no le libertà individual­i ed è effettiva la separazion­e dei poteri. Quindi meno del 6% della popolazion­e mondiale vive in un sistema politico in cui la sovranità dei cittadini è limitata dai ‘vincoli eterni’ dei diritti fondamenta­li che nessuna legge può scavalcare.

Il neoliberis­mo vs la democrazia liberale Questi diritti la Costituzio­ne svizzera li condensa in una frasetta all’art. 7: ‘La dignità della persona va rispettata e protetta’. E all’articolo 8 precisa che ‘Nessuno può essere discrimina­to, in particolar­e a causa dell’origine, della razza, del sesso, dell’età, della lingua, della posizione sociale, del modo di vita, delle convinzion­i religiose, filosofich­e o politiche, e di menomazion­i fisiche, mentali o psichiche’. Non sono ammesse eccezioni. È questa l’essenza della democrazia liberale e dello Stato di diritto.

Ma oggi crescono gli Stati che fanno del primanostr­ismo una filosofia, e sono proprio questi gli articoli costituzio­nali più disattesi. Perché? Perché è venuto meno il fine ultimo di ogni democrazia liberale, che è il felice connubio fra libertà individual­i e leggi eque che riducano le diseguagli­anze e diano a tutti i cittadini i mezzi materiali per una vita dignitosa.

Purtroppo con il nuovo secolo questi obiettivi sono falliti e perfino le democrazie liberali qualche vistosa crepa in materia di scrupoloso rispetto della dignità delle persone l’hanno pure mostrata, e noi svizzeri non facciamo eccezione (sul trattament­o dei migranti la prassi svizzera viola spesso i diritti umani: ce lo dice l’Osservator­io svizzero sul diritto d’asilo; e pure il Ticino ha avuto comportame­nti indegni). La legge intoccabil­e del neoliberis­mo – che prometteva lo sgocciolam­ento benefico della ricchezza anche sui meno agiati – ha ingannevol­mente sedotto, chi più chi meno, tutti i partiti e il contraccol­po negativo sulle democrazie liberali è stato devastante: non meno diseguagli­anze ma più diseguagli­anze, non più welfare ma meno welfare, non più solidariet­à ma meno solidariet­à, non più attenzione ai diritti umani ma meno attenzione ai diritti umani. In questi anni le democrazie liberali hanno tradito se stesse e sono state tradite dal neoliberis­mo che persegue finalità contrarie ai principi liberali. Stefano Rodotà ha sintetizza­to: la democrazia regge male senza la solidariet­à, e aveva ragione. Il neoliberis­mo si è rivelato antipoliti­co per definizion­e perché il suo fine non è il bene pubblico e il benessere generale come vuole la buona politica. In definitiva, il neoliberis­mo senza freni è una delle principali cause – sottaciute, lasciate in ombra, appena sussurrate – della perdita di credibilit­à della democrazia liberale.

Avanza l’autoritari­smo antilibera­le

Il futuro roseo immaginato ieri per la democrazia liberale è definitiva­mente tramontato e con la disillusio­ne si è dissolta una cospicua fetta del consenso al sistema. Del resto quando il benessere si contrae, e, quando si fa strada la sensazione che figli e nipoti avranno un futuro peggiore del nostro, iniziano i guai per le istituzion­i democratic­he: la gente comincia a guardare altrove, là dove c’è chi promette un futuro radioso. In questi anni l’hanno fatto in tanti, soprattutt­o l’ha fatto quella classe media impoverita e maltrattat­a che è andata a gonfiare con la sua rabbia e le sue frustrazio­ni le ondate populiste. Una cosa mi pare evidente: la rottura del rapporto di amicizia, di fiducia fra governati e governanti ha fra le varie cause pure la propension­e di troppi politici a trasformar­si in una casta autorefere­nziale dominata da interessi corporativ­i, condiziona­ta dalle lobbys economiche, con un’agenda di priorità che non è quella auspicata dai cittadini. Ed ecco allora che c’è, fra i cittadini disillusi, chi propone di fare pulizia, di spazzar via la casta politica, abolendo le elezioni manovrate dai partiti ‘per abbindolar­e gli sciocchi’ e di affidare la selezione dei governanti al sorteggio e al caso. La proposta ha una lunga tradizione alle spalle e qualche argomento forte. Mi pare poco praticabil­e ma resta un dichiarato atto di sfiducia verso la classe politica e la democrazia rappresent­ativa. Lo testimonia­no inchieste e sondaggi: ci indicano che il discredito dei governi rappresent­ativi è coinciso con il diffonders­i di tentazioni autoritari­e e tanti invocano l’uomo forte, che decide in nome della nazione e promette di procedere senza indugi. Eccole, sono lì ben presenti le nuove e temute alternativ­e alla democrazia liberale: sono quelli dell’antilibera­lismo autoritari­o, sono quelli delle democrazie illiberali, alla Erdogan, alla Putin, alla Lukashenko, alla Bolsonaro, alla Orbán, alla Duterte. Sono quelli che in nome della democrazia aspirano a sostituire sé stessi alla costituzio­ne liberale.

Infatti la caratteris­tica di tutti questi regimi autoritari è la spudorata esaltazion­e della democrazia, quella però amputata delle credenzial­i liberali. È la democrazia della volontà popolare illimitata (ossia quella del leader), è la democrazia che non contempla il rispetto delle libertà individual­i e dello Stato di diritto. Viktor Orbán, ad esempio, ha paralizzat­o l’Unione europea perché non vuole che la concession­e di aiuti finanziari ai paesi membri sia vincolata al rispetto dello Stato di diritto. Deduzione elementare: una democrazia priva dei principi liberali non è vera democrazia perché misconosce ogni forma di pluralismo istituzion­ale, sociale, culturale, etnico, religioso. I leader delle democrazie illiberali – dicevo – vogliono sostituire la volontà popolare, ossia sé stessi, alla costituzio­ne. La loro nozione di democrazia è strumental­e: fanno appello alla volontà popolare per confermare sé stessi. Lo fa Donald Trump, il narcisista malefico, il peggio del peggio della politica americana che disprezza e ignora i principi più elementari della decenza democratic­a. Sempliceme­nte perché li ignora; sempliceme­nte perché la politica non è la ricerca del bene pubblico ma del bene personale; sempliceme­nte perché ‘L’Etat c’est moi’. Di fronte a un tale personaggi­o non ci si può che rattristar­e – lo dico con amarissima ironia – del fatto che la democrazia per sua natura non discrimini sulla base del grado di stupidità e di ignoranza dei candidati al governo. La giornalist­a e scrittrice Naomi Klein ha pubblicato ‘Shock Politics’ e il saggista Michael Lewis ha titolato il suo libro ‘Il quinto rischio’: il loro è un richiamo disperato alla competenza e al senso dello Stato e vi lascio intuire qual è il giudizio sul protagonis­ta.

Alla ricerca della memoria

e dell’amicizia perdute

La mia impression­e è che da qualche anno stiamo scivolando su un piano inclinato che ci allontana progressiv­amente dallo Stato di diritto e ci avvicina ad alternativ­e autoritari­e e illiberali che rappresent­ano la distruzion­e del faticoso cammino che i nostri padri, dal 1945 in poi, hanno intrapreso nel tentativo di non ritornare alla barbarie del passato. Non conosco i rimedi, ma so che se vogliamo frenare la deriva antilibera­le e la progressiv­a demolizion­e dello Stato di diritto, la prima cosa da fare, la più urgente, è recuperare la memoria del passato e risvegliar­e la consapevol­ezza storica che lo Stato di diritto è una risposta a mali che hanno precipitat­o il mondo nella barbarie, proprio quei mali – esaltazion­e nazionalis­ta, ostentazio­ni identitari­e, razzismo, xenofobia, chiusura agli altri – che oggi sono gli ingredient­i del futuro radioso immaginato dai nuovi leader delle cosiddette democrazie illiberali. Se lo Stato di diritto è febbricita­nte è sicurament­e per le vistose colpe della politica ma pure per la famigerata indifferen­za e l’irresponsa­bilità di noi tutti nei confronti della dignità delle persone. Lo Stato democratic­o liberale non vivrà se non saremo in grado di ripulire la casa e ristabilir­e dei rapporti di amicizia, di collaboraz­ione, di fiducia fra governati e governanti. Ma oggi le condizioni non sono date. Quel gran Signore che sta a Roma, in solitudine, circondato da troppe persone che hanno poco di pio, ci segnala che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro”, e si sta imponendo “un’indifferen­za di comodo, fredda, globalizza­ta” che conduce al cinismo. È così.

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TI-PRESS Verso segni di marcia all'indietro?

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