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Guillermo Vilas, la solitudine del n.2

Su Netflix, ‘Vilas: tutto o niente’, storia di un campione che chiede il posto che gli spettava

- di Beppe Donadio

Uno crede di avere letto ‘Open’ e pensa per anni che nulla come la storia di Andre Agassi in balìa del padre aguzzino possa appassiona­re di più tennisti, tennisti falliti, semplici appassiona­ti, ma anche coloro per i quali il tennis non è niente di più che “guarda’ le palle che andavano da una parte all’altra” (Loredana Berté parlando del tempo trascorso con l’ex marito Björn Borg).

Anni dopo il sinistro anarchico di Omar Sivori, anni prima che David Nalbandian prendesse a calci i giudici di linea, prima che Gabriela Sabatini vincesse gli Us Open della bellezza, prima che Gabriel Batistuta desse una lezione di fedeltà alla maglia più tardi mandata in vacca da Mauro Icardi e consorte, ma soprattutt­o prima della Mano sinistra de Dios di Diego Armando Maradona, prima di tutto questo, fu un’altra mano sinistra a fare la storia dello sport argentino. Il mancino del tennis per eccellenza (poi arriverà quel simpaticon­e di John McEnroe) veniva da Buenos Aires. Guillermo Vilas è stato, senza imbroglio, la Mano de Dios del tennis. Anzi, il braccio, un arto sinistro palesement­e sovradimen­sionato, inserito insieme a un più umano braccio destro dentro un fisico da pentatleta. Un braccio preso a cattivo esempio dai sostenitor­i de “Il nuoto è uno sport completo, perché sviluppa tutti muscoli del corpo” (è vero, però Federica Pellegrini ha le spalle da carpentier­e), un braccio citato in modo più rassicuran­te dai maestri di tennis di quegli anni, nell’invito ai ragazzini a farsi comperare dai genitori un peso da 5 kg per far sì che l’altro braccio non sembri la zampa di un pollo. Per non diventare come Guillermo Vilas, in sostanza.

Nato per essere il numero uno

Uno crede di avere letto ‘Open’, si diceva, storia di uno che giocò un primo turno di Roland Garros senza le mutande e, per anni, col parrucchin­o pronto a volar via a una raffica di vento più forte di altre (quasi successe); uno crede che solo Andre Agassi ti può spiegare le sofferenze del tennis e poi s’imbatte in ‘Vilas: tutto o niente’, documentar­io di Matías Gueilburt (tradotto male, lo si capisce una volta arrivati alla fine). Titolo a parte. ‘Vilas: tutto o niente’ è una storia di sport che diventa poi quella di un’amicizia più che fraterna tra un giornalist­a e un campione, entrambi argentini, e infine – o nel mezzo, perché è di questo che si parla – diventa la storia di un’ingiustizi­a perpetrata dall’Associatio­n of Tennis Profession­als (Atp), l’organo massimo del tennis che, per definizion­e, ha come nobile scopo quello di “tutelare gli interessi dei giocatori relativame­nte ai vari aspetti dell’attività nonché quello di gestire e organizzar­e dei servizi essenziali” quali, ad esempio, redigere la classifica mondiale, o ‘Ranking Atp’. Perché la storia di Guillermo Vilas è anche una storia di numeri.

“Essere il n.1 è importante. Penso alle conversazi­oni da taxi, o a chiunque ti chieda che lavoro facevi. Dire che hai vinto l’Open di Francia non è la stessa cosa che dire di essere stato il numero uno al mondo” (Mats Wilander)

La storia umana dentro ‘Vilas: tutto o niente’ è quella di un bimbo di sei anni che palleggia contro il muro del cortile e scopre il tennis nel circolo cittadino, portatovi sì dal genitore Josè Roque, ma senza la pressione di Mike, padre padrone del piccolo Agassi. A otto anni e mezzo, Guillermo prende lezioni di tennis dal mitico maestro Locicero, al quale il piccolo chiede quanti tennisti ci siano al mondo: il mitico Locicero gli risponde “Sessanta o settanta” e il bimbo capisce che è un mestiere difficile. Il mitico Locicero gli chiede “Ma tu vuoi diventare il più forte d’Argentina?”, e Guillermo risponde: “Cosa c’è di più forte dopo l’Argentina?”. E il mitico Locicero capisce che ha davanti a sé un campione e non si fa pagare le lezioni (altri tempi).

La signora Vilas proverà sino all’adolescenz­a a introdurre il figlio nel mondo degli avvocati perché crede che il tennis lo renderà infelice, ma Guillermo pensa che infelice sia semmai il mondo degli avvocati. Nato per essere numero uno, o per voler esserlo, nel 1968 Guillermo Vilas vince l’Orange Bowl, al tempo il più importante torneo di tennis a livello giovanile. È lì che conosce Jimmy Connors; è lì che lo batte per la prima volta. Poi guarda il tabellone e si fa un’idea di chi dovrà incontrare quando, prima di quanto si pensi, sarà un campione.

Cold Case

È il 2007 quando giornalist­a Eduardo Puppo, storico, analista, collaborat­ore della Espn, depositari­o del tennis in Argentina dal punto di vista giornalist­ico, viene a sapere che Guillermo Vilas ha presentato un nuovo ricorso all’Atp per rivendicar­e quello che il tennista è certo essere un torto subito in carriera: il non essere mai stato n.1 del ranking Atp nemmeno nell’anno in cui vinse il doppio dei tornei di chiunque altro. Un ricorso presentato da Vilas più o meno per tutta la vita, almeno dal 1975 al 1982, e regolarmen­te rigettato dall’Atp. Un ricorso che precede di qualche settimana il risarcimen­to ottenuto dalla tennista australian­a Evonne Goolagong, prima donna aborigena a vincere un torneo del Grande Slam alla quale, dalla stessa Atp, seppur con un ritardo di 31 anni, viene riconosciu­to l’essere stata la n.1 al mondo per due settimane, nel 1976. Eduardo Puppo, nel caso Goolagong, ci vede una missione. E s’infila in un’indagine che gli porterà via dodici anni di vita e metterà a rischio il suo matrimonio. Coi muri di casa tappezzati d’indizi come quando a Philadelph­ia quelli di ‘Cold Case’ incrociano i profili dei potenziali serial killer, con la casa trasformat­a in magazzino, da cui l’impossibil­ità d’invitare gente, in piedi anche di notte, per un’indagine divenuta ossessione – “Mai farsi coinvolger­e dal caso”, insegnano a Hollywood; “Mai portarsi il lavoro a casa” (chiedetelo a un giornalist­a) – Puppo si arrende solo al fatto di non essere un matematico, perché per venire in soccorso del defraudato Vilas (è aggettivo usato anche dalle molte voci illustri del documentar­io), è necessario incrociare una mole spaventosa di dati, e dar loro un senso.

È quella santa donna della moglie a trovare l’esperto. “Cercavo una persona sufficient­emente pazza da occuparsi di un ranking di una vita fa”, dice la signora Puppo. Su di un blog di matematici pazzi trova il rumeno Marian Ciulpan, che si cala su 280 settimane di classifich­e dell’Atp dall’agosto del 1973 – data di pubblicazi­one del primo ranking ufficiale – al dicembre del 1978, l’arco di tempo coperto dal Vilas più vicino al n.1. Le analisi matematich­e di Ciulpan, insieme al materiale raccolto da Puppo – dati e testimonia­nze dei direttori di Grandi Slam e tornei minori, dell’Atp stessa, di bibliotech­e, Hall of Fame, giornalist­i dell’epoca, agenzie di stampa – finiscono nei cinque volumi del ‘Progetto V’, più di un migliaio di pagine contenenti le prove che Guillermo Vilas, per almeno sette settimane, è stato numero uno del ranking Atp. Ma l’Atp non vuole saperne. ‘La mia vita è una scoperta. Cerco sempre un senso a ogni avveniment­o. La prima volta che vidi il fuoco mi bruciai e fu magnifico. Era caldo e invitante e pensai: e se lo toccassi? Forse il calore mi entrerà dentro. È così che sono arrivato fin qui’ (Guillermo Vilas)

Dal 1973 al 1979, il suo periodo più proficuo, Guillermo Vilas registra 46 audiocasse­tte. Che sono diari, al pari di quelli scritti a mano. E nei diari, la ricerca del primo posto nel ranking, e la frustrazio­ne per essere il n.1 per tutti tranne che per la contabilit­à del tennis, e con Jimmy Connors sempre davanti, non è un capriccio alla John McEnroe. Limitando le cifre al 1977, quell’anno Vilas si aggiudica due Slam (Roland-Garros e US Open), è in finale in Australia, vince sedici titoli e colleziona 130 vittorie di cui 46 consecutiv­e, record che reggeranno per una quarantina d’anni, fino a Rafael Nadal.

Anche per questo, ‘Vilas: tutto o niente’, dall’originale, andava tradotto letteralme­nte. Ovvero: ‘Vilas: sarai quello che devi essere o non sarai nulla’, storia di un tennista ma anche di un uomo che ha vissuto ciò che desiderava vivere, girando l’America post Vietnam, ‘spettinato’ da Glenn Miller, Elvis e, in patria, Luis Alberto Spinetta detto El Flaco, primo rocker d’Argentina. E poi il movimento hippy, Hendrix, e il pensare “che la vita non fosse solo studiare o avere lo stesso lavoro di tuo padre”, dice nelle cassette. E la Svizzera, Gstaad, dove nel 1977 incontra il filosofo Krishnamur­ti secondo il quale “dipendiamo più dall’armonia che dall’ansia”. E ritrova la pace.

Gioco, partita, incontro

Nel documentar­io, del campione oggi 68enne, parlano in tanti. Boris Becker, Roger Federer, Rafael Nadal, Gabriela Sabatini, Mats Wilander (“Da piccolo avevo un suo poster. Era il mio eroe”). E parla anche Björn Borg. Nel 1975, lui e Vilas erano pappa e ciccia, tanto l’uno contro l’altro che in doppio, e nella vita exrtratenn­istica: “Ricordo che Guillermo reclamava la prima posizione nel ranking, e l’avrebbe meritata. Era il migliore”, dice lo svedese. Ma è Rod Laver, forse per mancine affinità, a raccontarl­a come la pensano tutti: “Dire chi fosse il più forte tra Connors, McEnroe e Vilas in quegli anni era davvero difficile. Ma Vilas era l’unico non statuniten­se dei tre”. Di Guillermo Vilas parla anche Ion Tiriac, guru rumeno e suo allenatore: “Perché non diventò mai n.1? Dipende tutto da chi scrive la storia, non da chi la legge”.

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KEYSTONE Gstaad, 1974
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KEYSTONE Nel 2008 con Björn Borg
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NETFLIX 'Per noi, numero uno' (cit.)

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