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La solitudine di Fedra

In attesa di debuttare col nuovo spettacolo, intervista al regista Leonardo Lidi

- Di Ivo Silvestro

Chiamiamo il regista Leonardo Lidi durante una pausa delle prove di ‘Fedra’: prove a teatro chiuso, e senza una data per la nuova produzione di Lac Teatro con protagonis­ta la moglie di Teseo, al centro di numerosi adattament­i fin dall’Antichità: respinta dal figliastro Ippolito di cui si è follemente innamorata, Fedra lo accusa di averla violentata.

In scena Alessandro Bandini, Leda Kreider, Christian La Rosa, Francesca Porrini e Maria Pilar Pérez Aspa. E nessuna certezza su quando sarà possibile debuttare.

Cosa significa provare senza avere una data per il debutto?

La cosa che chiedo agli attori, e fondamenta­lmente anche a me stesso, è di non immaginare di essere altrove, di trovarsi in un altro tempo. Il lavoro che faccio io è in completo collegamen­to con il tempo presente. In sintonia con il Lac che ha un’attenzione particolar­e verso le rivisitazi­oni, alle attualizza­zioni, a mettere i grandi classici in confronto con il pubblico del tempo. Cerchiamo di lavorare con questo dato di fatto: anche nella scelta del testo. All’inizio si pensava a un’altra opera, poi è arrivato il primo lockdown e con il direttore Carmelo Rifici abbiamo deciso di cambiare per un testo che potesse in qualche modo rapportars­i con il nostro presente. E abbiamo scelto ‘Fedra’.

In che misura ‘Fedra’ parlerebbe di oggi?

Per me il fatto che Fedra è fondamenta­lmente una donna disarmata e davanti ad Afrodite, a questa emozione gigantesca che è l’amore, diventa incapace di gestire le proprie scelte. È la lotta tra istituto e ragione, tra il desiderio di libertà e la necessità di proteggers­i da qualcosa di pericoloso come il rapporto con Ippolito.

Questo parla del nostro presente perché siamo in costante rapporto con qualcosa di più grande di noi, qualcosa di imprendibi­le. La relazione con l’amore è personale: c’è chi ne diventa vittima, chi diventa grande grazie a esso, chi non lo vuole…

Inoltre sono partito da un mito che riguarda Teseo: la sedia dell’oblio. Per quattro anni lui rimane immobile su questa sedia, agli inferi con Cerbero che potrebbe essere questo virus che ci chiede di rimanere chiusi in casa. Durante questo oblio, temine per me molto forte, Teseo deve rapportars­i con i suoi pensieri, con il suo passato, con il suo ipotetico futuro. Ed è esattament­e quello che sento in questo momento, un senso dell’attesa in cui abbiamo proiettato tutti i protagonis­ti dell’opera.

Al centro non ci sono quindi Fedra e Ippolito?

No: il motore dei pensieri è la sedia dell’oblio e quindi Teseo, ma la drammaturg­ia non si limita a lui. Il lavoro è diviso in tre, con i tre protagonis­ti – Fedra, Ippolito e Teseo, in quest’ordine – che raccontano ognuno la propria vita, il proprio amore, il proprio episodio, il proprio punto di vista. Contraddic­endosi l’un l’altro, creando delle incoerenze, dei dislivelli: come accade quando parliamo dell’amore quando siamo completame­nte assuefatti da esso.

Le fonti citate sono varie: Seneca, Euripide, Ovidio, Sarah Kane e Rithsos.

È stato un viaggio tra gli autori. Alla fine non ne è rimasto nessuno e la drammaturg­ia è diventata originale. La cosa importante per me era rapportarm­i con il tempo, con il fatto che questo mito ha attraversa­to il tempo. Ho cercato di collocarla nel nostro tempo figlio di Euripide, Seneca, Rithsos, Sarah Kane: ci sono delle differenze ma abbiamo cercato di raccontare la storia in rapporto con il nostro tempo, sapendo che cosa c’è stato prima.

Trovo molto interessan­te come questo mito resta e racconta periodi storici differenti: Sarah Kane che lo rappresent­ava in quell’Inghilterr­a, dicendo di aver letto solo Seneca e di non volersi neanche rapportare a Euripide. Adesso sento più datata Sarah Kane che Euripide.

Una ‘Fedra’ senza tempo per parlare del nostro tempo, se ho capito bene. Questo come si applica a livello di messa in scena?

Abbiamo pensato a qualcosa che abbia a che fare con l’assenza. A differenza dello ‘Zoo di vetro’ e di altri miei lavori dove creavo in maniera dettagliat­a un micromondo, qui ho voluto un buio che può spaventare, che ci interroga: cosa si cela in quel buio? Tornerà la luce? Un’assenza, perché è il concetto dell’individuo la cosa importante. Delle individual­ità all’interno di uno spazio vuoto nel quale possono solo aggrappars­i alla comunicazi­one, all’esternazio­ne dei propri stati d’animo. È molto importante che in quasi tutte le versioni di ‘Fedra’ si parta dal suo dubbio, dal suo dialogo con la nutrice che io sposto quasi in un dialogo con sé stessa: di fronte a una passione sfrenata, un’incapacità di gestire qualcosa di più grande di noi, la salvezza sta nel comunicarl­a, nel tirarla fuori. Scenicamen­te ci sono differenze molto forti fra i tre episodi. Partendo da una semplicità, dal nulla. Ma creare il nulla in un teatro è molto difficile.

La Fedra di Leonardo Lidi perché fa quello che fa?

Cerco di lasciare degli interrogat­ivi: vorrei che lo spettatore scegliesse la sua bussola interpreta­tiva. La prima domanda che mi sono posto, e che spero si porrà anche lo spettatore, è: Fedra è innamorata del figlio perché una grande passione l’ha sconvolta, o perché è abbandonat­a da Teseo e nella solitudine crea questa passione? Lo stesso per Ippolito: decide di nasconders­i nella selva per sfuggire all’amore. Mi ricorda molto la paura per l’altro, la paura per l’amore.

Penso che la solitudine sia una guida molto forte, di questo spettacolo: le solitudini beckettian­e, quelle che ci mettono in una dimensione di attesa costante, che ci fanno dialogare con il nostro compagno di vita o con noi stessi, per domandarci cosa ci stiamo a fare qui in questa confusione?

C’è qualcosa d’altro da aggiungere?

Il grande lavoro degli attori: è una categoria che in questo momento vive una grande incertezza. Io sono un regista italiano, per cui forse posso parlare di più di quel che succede in Italia, ma davvero da un momento all’altro ti chiedi se il teatro sia una profession­e che si può ancora fare. Ti cadono addosso grandi interrogat­ivi; non è detto che sia negativo, porsi interrogat­ivi molto grandi, ma nei momenti di lutto questi interrogat­ivi ti arrivano in maniera molto diretta, molto violenta. Devo ringraziar­e gli attori e tutti i collaborat­ori perché in questo momento in cui chi ha il teatro come bussola della propria vita si sente senza bussola, essere così forti, così profession­ali, così aderenti al progetto è per me un attestato di amore. E di amore si parla, in Fedra: c’è chi dice che la bellezza ci salverà, forse sarà l’amore a farlo. Può sembrare una frase da bigliettin­i nei cioccolati­ni, ma in realtà quello che dice ‘Fedra’ è che Afrodite è un dio troppo potente, un dio che brucia chiunque con la sua fiamma.

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LAC - FOTO STUDIO PAGI Fedra, un giorno

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