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Non abbandonia­mo Rete Due

- Di Ivo Silvestro

Capita ancora di trovare, ad esempio appiccicat­i a qualche lampione, gli adesivi della campagna No Billag: “Non abbandonar­mi: il 4 marzo vota NO” e poi “Grazie 92’936 volte”. Ci permettiam­o di riprendere quegli slogan per un pacato, ma fermo, “Non abbandonia­mo Rete Due”. Perché sembra proprio questo il rischio che corre la rete culturale: essere abbandonat­a, rinunciand­o ad approfondi­menti e dibattiti, alle trasmissio­ni di attualità culturale, perdendo le competenze e le sensibilit­à di chi vi lavora. L’operazione di riorganizz­azione, su cui da tempo circolano voci sempre minimizzat­e dalla direzione, è stata finalmente presentata internamen­te alla Rsi e non sembra per niente un semplice profilamen­to delle identità delle tre reti, un chiariment­o delle linee editoriali o un adeguament­o dell’offerta al trasformat­o mercato mediale.

Non si tratta di caratteriz­zare maggiormen­te Rete Due come “la rete musicale”, ma di far quasi sparire il parlato, incluse le recensioni discografi­che e le presentazi­oni dei concerti. Le percentual­i annunciate sono di un 90% musica e 10% parlato: sei minuti ogni ora, un paio d’ore nell’arco della giornata. C’è, pare di capire, un margine di discussion­e, ma anche immaginand­o di raddoppiar­e il parlato inizialmen­te previsto, rimarrà ben poco della ricca offerta attuale. Nel romanzo distopico ‘Vox’, Christina Dalcher immagina che un governo misogino imponga alle donne un numero limitato di parole, perché senza poter parlare si perdono la libertà e l’umanità. Non siamo ovviamente a questi livelli – anche perché alle parole si sostituire­bbe una cosa altrettant­o importante: la musica –, ma una riflession­e si impone. I motivi dietro questa operazione sono infatti noti: da una parte l’esigenza di fare economie, perché se la votazione per abolire il canone è stata respinta, il mercato pubblicita­rio è in continua contrazion­e e si impongono tagli anche dolorosi; dall’altra parte ci sono le nuove abitudini del pubblico, i nuovi linguaggi della multimedia­lità e delle reti sociali, per cui al tradiziona­le appuntamen­to con la rubrica radiofonic­a si affiancano streaming, podcast, post. Un cambiament­o, o meglio un insieme di cambiament­i, nell’offerta e nel modo di lavorare è quindi necessario. L’obiettivo però dovrebbe essere “cambiare tutto per non cambiare niente”, trovare un modo per portare al nuovo pubblico i contenuti e la qualità raggiunti negli anni da Rete Due. Ma creare una rete prevalente­mente musicale, sperando di riuscire a traghettar­e su Rete Uno o magari Rete Tre una parte di quell’offerta, è più una rinuncia: si chiede al pubblico di fare a meno delle specificit­à dell’approfondi­mento e dell’attualità culturale, di quello sguardo sul mondo importante e complement­are all’informazio­ne e all’intratteni­mento. Certo ci sono i nuovi canali digitali, innanzitut­to bisogna chiedersi in che misura podcast e streaming possano sostituire la dimensione collettiva della radio lineare. Problema che rischia comunque di passare in secondo piano, dal momento che senza un’offerta tradiziona­le solida e strutturat­a, difficilme­nte si riuscirà a costruire qualcosa di davvero interessan­te: si può ragionare sui nuovi formati, ma senza contenuti forti il rischio di fare un esercizio sterile è alto.

Rete Due è un patrimonio: per preservarl­o sarà certamente necessario “metterci mano”, cambiare delle cose. Questo “metterci mano” non può però essere una ritirata.

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