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Contrappun­to al tempo della dodecafoni­a

- Di Enrico Colombo

Come dire “L’amore al tempo del colera”, oso un accostamen­to sinestesic­o perché il romanzo di García Márquez e la “Musica per archi, percussion­i e celesta” di Béla Bartók sono due capolavori assoluti del Novecento. Ma il virtuosism­o di Màrquez che trasforma la realtà in finzione è altra cosa dell’omotetia negli sviluppi fugati di Bartók, che portano il tonale ai limiti dell’atonale.

Ho già ascoltato due volte in diretta l’intrigante opera di Bartók con l’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da Markus Poschner: all’Auditorio di Besso cinque anni fa, sullo schermo del mio computer mercoledì scorso. Sono stati due ascolti diversamen­te affascinan­ti. In sala il suono d’assieme costruito nello spazio sonoro disponibil­e, le scelte agogiche condiziona­te anche dall’attenzione del pubblico. Sul computer il suono d’assieme alquanto compromess­o dai tanti microfoni ripartiti nell’orchestra, ma in compenso l’espressivi­tà dei volti degli strumentis­ti in primo piano, soprattutt­o il gesto seducente di Poschner visto dalla parte degli orchestral­i.

Bartók compone nel 1936 a 55 anni quest’opera che contrappon­e la concezione contrappun­tistica, apice della musica colta occidental­e, alla dodecafoni­a da poco proposta da Schönberg. Lo fa con una singolare disposizio­ne simmetrica degli archi, due gruppi di contrabbas­si, di violoncell­i, di viole, quattro di violini, rigorosame­nte collocati metà a sinistra e metà a destra del palco; in mezzo la ricca percussion­e che impegna quattro percussion­isti, poi pianoforte, celesta e arpa. E mi è sembrata convincent­e la scelta quasi cameristic­a fatta da Poschner: ho contato 22 archi con solo 2 contrabbas­si.

L’ostentazio­ne di tanta simmetria mi sembra un omaggio di Bartók alla matematica che regge e giustifica non solo la musica tonale, ma il determinis­mo epistemolo­gico, già da alcuni anni smentito dalla relatività di Einstein e non solo da quella. Bartók, che muore nel 1945, è coetaneo di Picasso, Joyce, Stravinski­j, artisti che hanno capito, non proprio dove sta andando il mondo, ma almeno che il mondo sta cambiando. Piace immaginare le ambizioni espressive del compositor­e ungherese proiettate nella seconda metà del Novecento, accanto a compositor­i come Carter o Boulez, al passo con la ricerca epistemolo­gica che confina ormai il bello all’interno dell’organizzaz­ione neuronale del cervello, insomma in quella musica contempora­nea, alla quale mi piacerebbe ponesse mano ogni tanto anche l’Orchestra della Svizzera Italiana. Nonostante l’assenza del pubblico e l’occupazion­e totale del palco i 29 strumentis­ti impegnati in Bartók portavano la mascherina. A viso scoperto (ma non sereno, preoccupat­o per questa situazione d’emergenza) erano i 13 fiati impegnati nel primo brano del concerto, la Suite op. 4 di Richard Strauss, composta a 17 anni, nel 1881, l’anno di nascita di Bartók.

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LUCA SANGIORGI Con la mascherina. Senza pubblico

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