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Nascosti (per lavorare)

Il nuovo romanzo di Vincenzo Todisco ci aiuta a riflettere sul tema sempre attuale dell’immigrazio­ne. Ricordando­ci quando per poter lavorare i lavoratori stranieri dovevano stare lontani dai propri figli, oppure costringer­li a una ʻprigione familiareʼ.

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È certamente una delle voci più evocative ed emotivamen­te coinvolgen­ti dell’attuale panorama letterario della Svizzera di lingua italiana.

Lo scrittore grigionese ha infatti una grande maestria nel raccontare le memorie e i legami passati, i rimpianti per i luoghi e le persone del tempo che non c’è più. Spesso, poi, nei suoi romanzi è tornato su temi quali l’immigrazio­ne, raccontand­o con partecipaz­ione la difficoltà di sentirsi sradicati e la fatica di essere accettati lontani dalla propria patria. Come nel caso del suo ultimo libro.

Vivere come un rettile

Sono temi che tornano, in maniera anche straziante, nell’ultimo lavoro di Todisco, Il bambino

lucertola (Armando Dadò, 2020). Ambientato in Svizzera negli anni Sessanta del secolo scorso, quando a causa dell’allora vigente statuto dello “stagionale” per molti lavoratori stranieri non era previsto il ricongiung­imento con la famiglia. Molti di loro, dunque, non avevano il diritto di portare con sé i figli. Questa situazione costringev­a molte famiglie a tenerli per forza di cose nascosti, onde evitare di essere espulse e perdere il lavoro. È quello che accade al protagonis­ta del suo ultimo libro, quel “bambino lucertola” la cui origine ci viene spiegata dallo stesso Todisco.

“Il bambino del romanzo, che tra l’altro non ha un nome, si chiama ‘lucertola’ perché nella sua reclusione forzata assume via via le sembianze e i movimenti di una lucertola: striscia per terra, si infila sotto il letto o dentro l’armadio, guizza via senza far rumore, rimane immobile trattenend­o il respiro. È sua nonna Assunta a chiamarlo così perché in un primo periodo, quando i genitori vengono ancora a trovarla insieme al bambino, lei si accorge che il piccolo si muove in modo singolare, come se fosse costanteme­nte minacciato da un pericolo imminente”.

Signor Todisco, nel libro a narrare la storia è il bambino in prima persona. Perché questa scelta?

“Dopo tanti tentativi si è rivelato l’unico modo possibile di raccontarl­a. Al centro del romanzo si pone la figura del ragazzo recluso, come nelle scatole cinesi; prima nel palazzo dove vive con i suoi genitori, poi nell’appartamen­to, nella sua stanza, nell’armadio. Era necessario dare questa dimensione alla storia. Tutto è narrato dal punto di vista e dalla prospettiv­a del bambino, come se avessi piazzato una telecamera sulla spalla del protagonis­ta. In questo modo chi legge può osservare le situazioni e seguire l’evolversi degli eventi attraverso gli occhi del bambino che non vede mai il mondo tutto intero, ma solo parte di esso, solo le gambe degli altri personaggi, gli stivali del datore di lavoro del padre quando entra in cucina, le facce dei personaggi che spia attraverso gli spiragli. Era importante mostrare come il bambino si orienta nella penombra dell’appartamen­to e del palazzo in cui vive affidandos­i all’udito, alla vista e alla percezione tattile”.

Non è quasi comico che nel libro il luogo dove vive il bambino venga chiamato “il paese dell’accoglienz­a”? Un’ironia voluta?

“Sì, da un lato è un’ironia voluta. ‘Il paese d’accoglienz­a’ è un termine tecnico, in tedesco

das Gastland, effettivam­ente usato un tempo. In realtà il ‘paese’ molto spesso non si presentava accoglient­e, tanto meno per chi, come gli stagionali, era privato di molti diritti. Dall’altro lato il termine è usato per conferire alla storia una dimensione universale. Non si trattava per me né di puntare il dito sulla Svizzera né di ridurre il romanzo a una cruda denuncia sociale. Ancora oggi nel mondo ci sono molti bambini clandestin­i, basti pensare ai cosiddetti sans-papiers, costretti a vivere reclusi, da illegali. Il bambino lucertola è uno di loro, la denuncia che esce dal libro è in primo luogo questa”.

Cosa ci racconta rispetto al tema dell’immigrazio­ne una storia come quella del bambino lucertola?

“Max Frisch aveva avuto modo di pronunciar­e la famosa frase: ‘Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini’. Il padre del bambino lucertola è un ottimo muratore. Il suo datore di lavoro – nel romanzo si chiama Jakob Dühr o sempliceme­nte ‘il Padrone’ – ha bisogno di lui per portare avanti i lavori al cantiere; durante l’inverno i datori di lavoro scendevano al Sud per reclutare i muratori e manovali per i loro cantieri. Alcindo però, così si chiama il padre del bambino lucertola, non è soltanto un lavoratore, non è fatto di sole braccia, ma ha anche un cuore che batte, dei sentimenti, dei bisogni umani, come quello di stare accanto alla propria famiglia. Lo statuto dello stagionale negava questo diritto e cancellava la dimensione umana dei lavoratori stranieri, come accade ancora oggi in molte situazioni di immigrazio­ne”.

 ??  ?? Sopra: fotogramma dal film ʻLo stagionale­ʼ (1971) dellʼopera­io-regista Alvaro Bizzarri, opera simbolo della lotta degli immigrati contro lo statuto di stagionale.
In basso: operai italiani alla stazione di Briga in attesa di riprendere il viaggio verso le varie destinazio­ni svizzere. La foto è del 1956.
Sopra: fotogramma dal film ʻLo stagionale­ʼ (1971) dellʼopera­io-regista Alvaro Bizzarri, opera simbolo della lotta degli immigrati contro lo statuto di stagionale. In basso: operai italiani alla stazione di Briga in attesa di riprendere il viaggio verso le varie destinazio­ni svizzere. La foto è del 1956.
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