L’odio di Trump e i diritti di tutti
La messa al bando del presidente dai social rivela un problema di monopolio tecnologico
Twitter ha bloccato in maniera definitiva l’account di Donald Trump. Decisioni simili sono state prese da Facebook, Instagram, Snapchat e Twitch: una “social media ban” impensabile, fino a non molto tempo fa, quando il massimo che queste aziende potevano e volevano fare erano avvisi per rendere attenti gli utenti che quanto affermato è fuorviante, controverso o falso. Del resto impensabile, fino a non molto tempo fa, era anche che il palazzo del Congresso degli Stati Uniti si trasformasse in un bivacco di bifolchi, i ‘proud boys’ accorsi a Washington perché convinti che Joe Biden e Kamala Harris avessero ottenuto la vittoria elettorale con brogli e inganni. Tesi che Trump ha sostenuto anche nel video che in teoria doveva calmare gli animi nel momento dell’assalto al Campidoglio, video rimosso da Facebook – “Crediamo che contribuisca al rischio di violenza in corso, anziché contenerla” ha dichiarato un dirigente dell’azienda – e ammesso con limitazioni su Twitter, prima della sospensione dell’account “per il rischio di ulteriori incitamenti alla violenza”.
I blocchi ovviamente non si limitano al presidente uscente: nei giorni successivi numerosi account legati a QAnon – teoria cospirazionista secondo cui Trump è in lotta contro il nuovo ordine mondiale colluso con reti internazionali di pedofilia, occulte pratiche ebraiche eccetera – sono stati rimossi da Twitter e si è arrivati addirittura al blocco di un intero social media alternativo, Parler, ritrovatosi senza app per smartphone per decisione di Google e Apple e alla fine senza server per decisione di Amazon (il gigante del commercio elettronico è anche uno dei principali fornitori di servizi web al mondo).
Libertà di espressione
Per certi versi è paradossale, che il dibattito su social media e libertà di espressione prenda vigore da un caso simile, e non – giusto per fare un esempio degli scorsi mesi – dai giornalisti e attivisti siriani sospesi da Facebook perché erroneamente considerati collegati a organizzazioni terroristiche. Paradossale innanzitutto perché Trump ha ancora a disposizione tutti i canali comunicativi di un presidente, per quanto uscente. Ma soprattutto perché è difficile parlare, qui, di violazioni della libertà di espressione: non si sta parlando di semplici opinioni e neanche di quel linguaggio d’odio sul quale spesso si dibatte, ma di incitamento alla violenza e, soprattutto nel caso di Parler, di organizzazione di atti violenti. Senza dimenticare che la libertà di espressione – il famoso Primo emendamento della Costituzione statunitense – riguarda in primo luogo l’agire dei governi, non le decisioni di aziende private che possono legittimamente decidere chi ospitare e chi no. Il fatto che due importanti associazioni che da sempre si battono per il rispetto dei diritti come la Eff (Electronic Frontier Foundation) e l’Aclu, l’Unione americana per le libertà civili, abbiano sostenuto la legittimità delle decisioni contro Trump dovrebbe convincerci che il problema è un altro. Perché è vero che parliamo di aziende private e non di governi, ma queste aziende svolgono una sorta di servizio pubblico sempre più essenziale e i loro regolamenti possono avere maggior impatto di leggi e norme. E tutto questo in regime di quasi monopolio. Per questo la Eff, sempre attenta alle libertà digitali, aggiunge alla sua presa di posizione in favore dell’esclusione di Trump la necessità di maggiori trasparenza e coerenza nell’applicazione delle regole. Puntando il dito su un problema importante ma di cui troppo poco si discute pubblicamente: il ruolo sistemico di certi servizi. Non solo i social media, ma anche Google e Apple che possono togliere dagli store digitali le app, Amazon che sulla propria infrastruttura ospita numerosi servizi, le carte di credito che rifiutando pagamenti online possono portare alla chiusura di servizi.
Più un servizio è fondamentale, più diventa importante sapere chi e come decide di operare. O avere alternative, ma qui “più concorrenza” rischia di essere uno slogan vuoto, e non solo per le difficoltà politiche ed economiche a spezzare oligopoli ormai consolidati. Perché sarebbe bello che gli utenti avessero a disposizione più opzioni editoriali e politiche tra cui scegliere, ma i social media sono sistemi chiusi che limitano più o meno fortemente l’interazione ai membri di quel social media. Tornare a sistemi aperti, come ad esempio erano i blog, è probabilmente un’utopia e, in questa situazione, maggior scelta significa tante comunità chiuse che si ignorano.
Donald Trump vola ad Alamo, Texas, per celebrare “lo straordinario successo” del suo muro al confine col Messico “che sta fermando l’ingresso di fiumi di droga e un sacco di immigrati clandestini”, mentre la Camera vota la mozione per chiedere al suo vice Mike Pence di destituirlo entro 24 ore con il 25esimo emendamento; ma è già pronta in alternativa ad approvare mercoledì l’impeachment. Alla partenza e all’arrivo, il presidente ha contrattaccato per la prima volta dal 6 gennaio con tono di sfida, definendo “totalmente appropriato” il comizio incendiario in cui ha incoraggiato i suoi fan ad assaltare il Congresso e respingendo ogni responsabilità. Quindi ha bollato come “completamente ridicola” la procedura di impeachment, accusando i dem di provocare una “rabbia enorme” tra i suoi sostenitori con una “caccia alle streghe”, pur assicurando che non vuole “alcuna violenza”. Una raffica l’ha riservata proprio alle piattaforme social che hanno sospeso il suo profilo: “La libertà di parola è sotto assalto come mai prima”, ha tagliato corto.
Nel frattempo alla Camera iniziava la lunga maratona per convincere Pence a invocare il 25esimo emendamento contro il presidente. Una strada che ormai sembra un vicolo cieco dopo la “buona conversazione”, secondo fonti della Casa Bianca, che i due hanno avuto nello Studio Ovale, impegnandosi “a continuare il lavoro per conto del Paese per il resto del loro mandato”. Sembra quindi inevitabile il voto sulla mozione d’impeachment per incitamento all’insurrezione, che alla Camera conta già sulla maggioranza semplice dei democratici. Con l’apparente benedizione del leader della maggioranza repubblicana al Senato, dove si dovrebbe celebrare il processo: secondo il ‘New York Times’, Mitch McConnell avrebbe detto ad alcuni collaboratori che a suo avviso il presidente ha commesso reati e che è contento che i dem lo mettano in stato d’accusa, convinto che sarà più facile cacciarlo dal partito.
Sale intanto la tensione in tutto il Paese dopo l’allarme dell’Fbi su possibili marce di milizie armate tra il 16 e il 20 gennaio non solo su Capitol Hill, ma anche contro i Campidogli negli altri 50 Stati Usa. Il Bureau sta inoltre perseguendo oltre 170 sospetti per l’assalto al Congresso (la polizia di Capitol Hill invece ha sospeso due agenti e ne ha messa sotto inchiesta una quindicina). “Non ho paura di fare il giuramento all’esterno di Capitol Hill”, ha commentato Biden.