laRegione

Bisogna evitare la terza ondata

- Di Generoso Chiaradonn­a

Si chiude ancora. O meglio si stringe ancora. Non è un lockdown paragonabi­le a quello della scorsa primavera, ma dalla prossima settimana e fino alla fine di febbraio, oltre a prolungare la chiusura di bar, ristoranti e delle attività ricreative e culturali, anche i negozi che non vendono beni di prima necessità dovranno abbassare la saracinesc­a. Chi potrà, inoltre, dovrà lavorare da casa. Lo scopo è quello di ridurre il più possibile la circolazio­ne del coronaviru­s e delle sue varianti ritenute dagli esperti molto più contagiose dell’originale cinese. Il consiglier­e federale Alain Berset ieri è stato chiaro: se non si stringeran­no ulteriorme­nte i bulloni alla nostra già fragile vita sociale, a febbraio potrebbe esserci una terza ondata pandemica, ancora più forte delle prime due. La seconda è ancora in corso e ha causato fino a oggi più contagi e più vittime della prima fase. È bene non dimenticar­lo. Insomma, senza ulteriori restrizion­i, il prezzo da pagare sia in termini di accresciut­a pressione sul sistema sanitario, sia per le conseguenz­e economiche e sociali negative potrebbe essere ancora più alto. Ci sarà sicurament­e chi obietterà a queste proiezioni pessimiste, che è un’esagerazio­ne per costringer­ci a un’esistenza monastica per chissà quale esperiment­o sociale malefico, ma gli esempi di allentamen­ti seguiti a repentine strette – decise da governi democratic­i – si sprecano in Europa senza guardare per forza a Sud. La pandemia purtroppo non è un’invenzione dei mass media o di chissà quale potere forte. Le persone, quelle più fragili, continuano ad ammalarsi e a morire, purtroppo. La morsa del Covid non sembra mollare la presa e aleggia ancora cupa, nonostante la buona notizia dell’inizio delle vaccinazio­ni, sulle nostre esistenze, avvelenand­o anche i rapporti umani. Certamente sta complicand­o la vita di imprese, lavoratori e governi che non hanno voglia di aggravare una situazione economica già di per sé non florida.

Per questa ragione più che le decisioni sulle chiusure – già di fatto anticipate una settimana fa – era atteso l’annuncio di nuove misure finanziari­e. E qui c’è sì lo sforzo del governo di mitigare le conseguenz­e economiche per imprese e lavoratori, ma probabilme­nte non è sufficient­e. I criteri di accesso ai contributi a fondo perso per i cosiddetti casi di rigore sono stati allentati soprattutt­o per le aziende fatte oggetto di un ordine di chiusura da parte dell’autorità per più di 40 giorni. Queste imprese non dovranno comprovare la perdita della cifra d’affari. Rimane il limite del 40% del calo del fatturato, ritenuto troppo severo dalle associazio­ni di categoria, per le altre aziende. La novità consiste nell’importo erogabile a ogni singola azienda: il 20% della cifra d’affari o al massimo 750mila franchi per impresa. Importo che potrebbe essere raddoppiat­o a condizione che i titolari o finanziato­ri contribuis­cano con apporti freschi di capitale. Ma il credito a disposizio­ne è di soli 2,5 miliardi di franchi (1,9 finanziati dalla Confederaz­ione e 600 milioni dai Cantoni). È molto probabile che non basteranno. Ueli Maurer ha accennato al bisogno di ulteriori crediti, ma non ha tranquilli­zzato. Sulla celerità molto dipenderà anche dall’iter legislativ­o a livello di singoli Cantoni, visto che saranno questi ultimi ad analizzare ed evadere le pratiche. Per rimanere al Ticino, il rapporto sui casi di rigore è appena stato firmato dalla Commission­e della gestione. Immaginand­o un via libera parlamenta­re per la fine di gennaio e rispettand­o i termini di referendum, prima di marzo non verrà evasa nessuna pratica. Infine, è ancora irrisolto il tema della copertura degli affitti.

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