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Le ombre del virus sulla disabilità Due testimonia­nze sulle sfide affrontate dagli ospiti di foyer e strutture semi-residenzia­li

- Di Cristina Pinho

Il virus in circolazio­ne ha relegato le vite di tutti entro nuovi schemi, fatti di accresciut­i limiti e regole a cui sottostare. Con maggior intensità ciò si è verificato per le persone in condizione di fragilità, sottoposte a restrizion­i supplement­ari. Sulla quotidiani­tà di alcune di loro, recentemen­te, le porte si sono chiuse precludend­o per ulteriore tempo incerto ogni spiraglio di ritorno alla normalità. Il caso più noto riguarda gli ospiti delle case anziani, dove dallo scorso 16 gennaio è stato decretato lo stop a visite e uscite. Ma non è il solo; le stesse disposizio­ni hanno coinvolto i foyer per persone con disabilità, analogamen­te poste in una sorta di confinamen­to forzato, con la differenza però di non sapere quando potranno accedere al vaccino. «Ciò che manca di più ai nostri ospiti è il contatto stretto con i familiari – spiega Alfa Canevascin­i, responsabi­le del foyer locarnese Casa Bianca della Fondazione Otaf, in cui risiedono persone adulte con disabilità –. Durante la prima ondata erano già stati sospesi tutti i rientri a domicilio e le visite da parte di esterni e congiunti, con cui è stato mantenuto un contatto regolare telefonica­mente e tramite corrispond­enza scritta. Nel corso del periodo estivo abbiamo potuto organizzar­e incontri a distanza con i parenti in spazi appositame­nte adibiti, poi ci siamo trovati nuovamente in una fase di grande prudenza con diverse limitazion­i. E ora siamo tornati alla situazione del primo lockdown». Una condizione che mette a dura prova tutte le famiglie coinvolte, provocando spesso apprension­e. A causa dei lavori di ristruttur­azione e ampliament­o di Casa Bianca, in primavera ospiti e personale sono stati alloggiati provvisori­amente negli appartamen­ti di un hotel del Locarnese: «Oltre a gestire la questione del virus, abbiamo dovuto ricreare un ambiente familiare – considera Canevascin­i –. Fortunatam­ente abbiamo potuto utilizzare la sala giochi e il giardino, dove nelle belle giornate pranzavamo e cenavamo. Ora siamo nel foyer ristruttur­ato in cui disponiamo di spazi più ampi. Il problema è però che ci troviamo in pieno inverno e di conseguenz­a le possibilit­à di svolgere attività all’aria aperta sono ridotte, ciò che si aggiunge all’assenza di uscite di gruppo, colonie, eventi sportivi, di canto o di teatro. Questo porta i residenti a manifestar­e maggiori segni d’insofferen­za, dettati dal dover rimanere in casa, oltre che preoccupaz­ione e ansia per la prolungata emergenza sanitaria. Molto sentito è anche il venir meno dei piccoli gesti, la bellezza di un abbraccio affettuoso o di una pacca amichevole».

La salute non è solo assenza di malattia

Per quanto riguarda le reazioni degli ospiti a un eventuale contagio o a una quarantena, queste dipendereb­bero dal grado di comprensio­ne e dal temperamen­to di ognuno. «C’è chi riuscirebb­e ad affrontare la situazione senza troppe difficoltà. Per altri, invece, sarebbe più problemati­co rimanere chiusi in camera per diversi giorni. La direzione ha comunque previsto un piano d’intervento con la possibilit­à di trasferime­nto in una struttura adeguata nel centro Otaf a Sorengo».

Proteggers­i dal virus è una priorità, ma la salute di una persona non si limita alla sanità del suo corpo. Secondo la definizion­e dell’Oms la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non sempliceme­nte assenza di malattia o infermità”. In questo senso, spiega la responsabi­le di Casa Bianca, «manteniamo alta la nostra determinaz­ione nell’assicurare una buona qualità di vita alle persone che accogliamo, creando e diffondend­o quell’anelito di normalità che ognuno di noi reclama per sé stesso. Nei limiti delle regole ci impegniamo per continuare a permettere la loro autodeterm­inazione e soprattutt­o per favorire momenti d’inclusione. Questo anche se il coronaviru­s e le norme sanitarie e di distanziam­ento sociale hanno intaccato l’essenza stessa del nostro lavoro, basato principalm­ente sul contatto, sia per la cura del corpo e dell’igiene, che per il benessere della persona e della sua anima. Ci adeguiamo alle direttive, perché è necessario farlo, ma non potremo mai abituarci a questa situazione».

Progetti di vita in sospeso

A Locarno ha sede anche la Scuola di vita autonoma (Sva), nata per iniziativa di Pro Infirmis, che si rivolge ad adulti con disabilità. La formazione di base, che prepara al passaggio verso una struttura abitativa scelta dall’utente, è prevista su due anni durante i quali gli ospiti vivono nella struttura in settimana e rientrano in famiglia nel weekend. Nei giorni feriali tutti svolgono un’attività lavorativa al mattino e poi tornano per seguire i corsi al pomeriggio e occuparsi con i compagni della gestione della residenza, dove ognuno ha una propria camera. «Nel corso del primo lockdown tutti i sei utenti sono dovuti rientrare dalle loro famiglie – spiega la responsabi­le della Sva, Sarita Capra –. L’équipe educativa era presente a distanza con un picchetto telefonico costante, ed è stata creata una chat attraverso cui venivano proposte delle attività quotidiane di cui poi rendere testimonia­nza con filmati o foto. In seguito c’è stato un periodo di transizion­e, e da giugno abbiamo riaperto in modalità “normale”, con le visite esterne sospese. Abbiamo sempre curato molto la comunicazi­one con i genitori, informando­li mano a mano delle decisioni, collaboran­do con loro e rimanendo a disposizio­ne anche nei fine settimana».

Pure alla Sva l’annullamen­to di molti momenti di aggregazio­ne e le limitazion­i negli incontri hanno avuto un peso importante. «Agli ospiti manca vedere gli amici, uscire, invitare qualcuno a cena, frequentar­e corsi: le cose che qualsiasi loro coetaneo ha voglia di fare. Manca loro anche non potersi muovere liberament­e negli spazi comuni di quella che in parte consideran­o “casa”. Per alcuni è stato poi complicato accettare che il proprio progetto di vita, legato al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa per il dopo Sva, sia sospeso per via del blocco degli stage e delle assunzioni in nuove strutture».

A novembre gli ospiti della Sva hanno dovuto fare una quarantena. «È andata bene, nessuno si è ammalato. Gli educatori erano presenti 24 ore su 24. Si è trattato di un’esperienza faticosa, ma al contempo molto intensa e che ha creato vicinanza e conoscenza in modo diverso». Anche Capra sottolinea gli sforzi per far sì che la protezione non vada a precludere l’attitudine inclusiva. «Di volta in volta valutiamo la situazione affinché la qualità di vita di ognuno sia garantita e l’utente è sempre coinvolto nelle decisioni. Tuttavia, in certi momenti, delle autonomie devono essere limitate perché i rischi che gli ospiti si prendono nel cercare di conoscersi e di percorrere le propria strada non devono essere tali da minare la loro sicurezza. Però insieme cerchiamo di riconoscer­e queste scelte fatte in modo consapevol­e e diamo loro il valore che il contesto attuale richiede».

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TI-PRESS C'è chi da molto tempo non può incontrare i propri familiari. Nessuna informazio­ne in merito a quando saranno accessibil­i i vaccini
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TI-PRESS Momenti che mancano

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