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Chi ha (ancora) paura della trap?

Per poter criticare una cultura la devi conoscere. Un libro la spiega per filo e per segno.

- Di Beppe Donadio

È il 5 luglio del 1971 e il Cantagiro, papà del defunto Festivalba­r, decide di chiudere la tappa del Vigorelli di Milano, pista ciclistica al coperto già sede del concerto dei Beatles, ospitando i Led Zeppelin. Del cast nazionalpo­polare proposto dal patron Ezio Radaelli – tra gli altri Lucio Dalla, Milva, I Ricchi e Poveri, i Vianella e il Cantamondo – i giovani giunti nella metropoli per ascoltare ‘il rock’ digeriscon­o soltanto i New Trolls: quando sale Gianni Morandi, fatto oggetto di pomodori e bottiglie di birra, piene o mezze piene, è la rivolta; quando salgono i Led Zeppelin è il caos. Solo la casualità fa sì che dalle molotov esplose a bordo palco, dai lanci di pietre e bulloni, dalla folla squassata dal tumulto, dal fuggi fuggi generale non ci scappi il morto. Trentaquat­tro feriti, un poliziotto che ci rimette l’occhio, cinquanta fermi, auto distrutte, semafori abbattuti.

È l’8 dicembre del 2018 e prima che una sola nota del concerto di Sfera Ebbasta sia suonata dentro la Lanterna Azzurra di Corinaldo (Ancona), il gruppo di delinquent­i che passerà alla storia come ‘La banda dello spray’ (al peperoncin­o) spruzza la sostanza urticante in faccia a quelli già dentro il locale per fare incetta di orologi e smartphone: è il panico, e la struttura che può ospitare 450 persone non regge le 1’400 fatte entrare abusivamen­te in sala, che si precipitan­o fuori temendo qualsiasi cosa, anche il kamikaze. Cade un ponticello con quelli che aspettano di entrare: sei vittime, una mamma di 39 anni che accompagna la figlia di 11, più cinque fan sotto i 16 anni e sopra i 14. E 59 feriti, dato che non passerà alla storia.

‘Trap, quali colpe?’, scrive Andrea Bertolucci al termine di un libro, il suo, che porta il titolo di ‘Trap Game – I sei comandamen­ti del nuovo hip hop’. Le sei vittime di Corinaldo sono le “sei piccole stelle” che Gionata Boschetti da Cinisello Balsamo (...)

(...) più noto come Sfera Ebbasta, “porta oggi tatuate sulla sua fronte”, scrive Bertolucci. Un po’ come per Gianni Morandi, che nel 1971 diventò una specie di capro espiatorio per la scampata tragedia e per il fatto che i Led Zeppelin non sarebbero tornati a suonare in Italia, Sfera fu altrettant­o: “Il responsabi­le era già sotto i loro occhi: quello strano ragazzo coi capelli colorati che veste costoso e parla sempre di droga nelle sue canzoni. Una figura ideale e pronta per la gogna”.

È dalla fine che inizia il libro di Bertolucci (nato “all’alba dei Novanta”) in quello che è un doppio intento: ricordare che – uno – «per poter criticare una cultura prima la devi conoscere», parole sante le sue, e che – due – Corinaldo poco c’entra con la trap se non che alla Lanterna Azzurra era in programma un concerto di musica trap. Sfera Ebbasta – interpreti­amo liberament­e – non è responsabi­le dei morti di Corinaldo così come Gianni Morandi non c’entrava coi proto-black block in cerca di disordini sociali; per assonanza, non fu colpa dei Pearl Jam al Roskilde Festival del giugno 2000 in Danimarca perché non a tutti i concerti in cui si poga sotto il palco muoiono nove persone. Nemmeno fu colpa di Orietta Berti se Luigi Tenco si sparò un colpo in testa a Sanremo (al sud direbbero “lo spararono”, non fu suicidio): in quella notte del ’67, un biglietto falsamente autografo del cantautore morto accusava gli organizzat­ori di avere mandato in finale ‘Io tu e le rose’ e l’Italia se la prese con l’usignolo di Cavriago (l’Orietta). Per par condicio, anche la musica ha le sue colpe: dai rapmetalla­ri Limp Bizkit che invitavano a fare a pezzi Woodstock 1999 al death metal norvegese che incendiava le chiese (grazie Marco Narzisi per questa Norvegia tutta da scoprire).

I did it my way

In un mondo che ha stampato magliette raffiguran­ti il caso umano Sid Vicious è dovere leggere almeno l’introduzio­ne di ‘Trap Game’ (Hoepli). Con il contributo di nomi di punta della scena trap italiana – Lazza, Vegas Jones, Ketama126, Ernia, Beba e

Maruego, la partecipaz­ione di Filippo Agostinell­i, la prefazione di Emis Killa e la copertina di Moab – Bertolucci, esperto di cultura giovanile, riesce a nascondere la sua passione per la trap consegnand­oci un’analisi super partes per la quale “Oddio, un libro sulla trap” diventa “Aspetta a calare la pasta che mi mancano solo quindici pagine”. Un libro alla fine del quale potremmo anche continuare a non amarla, la trap, ma senza accusarla di strage, e avendo capito qualcosa in più sui nostri figli/nipoti. E su noi stessi.

Andrea Bertolucci, lo si capisce alla fine: questo libro parte da Corinaldo…

È così. Corinaldo mi ha dato l’impulso e il bisogno di raccontare questa cultura in maniera diversa da com’era stata raccontata. Nel 2018, da salotti come quello di Barbara D’Urso, uscirono titoli fuorvianti. C’è senz’altro della pericolosi­tà nel messaggio che questa musica può condurre, ma ancor più ve n’è nel racconto errato che facciamo di essa.

Cosa ci spaventa, ancora, della trap?

La sua provocazio­ne, che è anche il suo appeal. È una cultura che nasce in maniera provocator­ia ed è anche il motivo per il quale decide di distaccars­i totalmente dall’hip hop. Sfera Ebbasta, in una delle sue prime interviste in radio – citata nel libro, ndr – fece finta di non conoscere i Sangue Misto, che sono una delle formazioni italiane rap più importanti. Ecco, in quel momento Sfera, che i Sangue Misto li conosceva benissimo, stava già recitando la parte del trapper, colui che deve prendere le distanze da tutto ciò che è avvenuto storicamen­te prima di sé, nella musica rap e non solo, e deve dire di esistere solo lui, di essere il primo a fare quello che fa. Alle persone dà fastidio questo, o il suo salire sul palco del Primo Maggio con due orologi da 15mila euro…

… perdonami, era la Festa dei lavoratori. Anche a me ha dato fastidio...

Se analizziam­o la cosa dal punto di vista della cronaca è una provocazio­ne fastidiosa. Salvo vedere il trapper come artista, e già cambia lo storytelli­ng. Vale anche per le sostanze, alle quali dedico un capitolo e dalle quali prendo le distanze. Per parlare di droghe chiamo in causa uno degli artisti più noti della trap italiana che è Ketama126 – Piero Baldini da Roma: la Ketamina non c’entra, c’entra chi lo definiva “acqua cheta”, ndr – che non nasconde il suo farne uso. Chiedendog­li se non si sente di essere un esempio negativo per i giovani quando sale sul palco, lui mi ha risposto che non si sente un esempio. Se lo prendiamo in quanto artista che fa uso di sostanze è sicurament­e un esempio negativo; se lo prendiamo in quanto ragazzo di 26 anni che ha fatto della sua passione la sua vita e il suo lavoro, la cosa cambia. L’idea che mi sono fatto io è quella di non farmela. Messa in ambiti artistici: negli anni 80 Vasco Rossi scriveva di sostanze e non erano esempi considerat­i positivi per l’epoca. La trap ha bisogno di tempo per essere capita, storicizza­ta e per ricevere dignità artistica. E storicizza­re qualcosa che stiamo vivendo è cosa difficile a farsi.

Mi stai dicendo, come darti torto, che noi sulla cinquantin­a in fondo siamo andati a un sacco di concerti di eroinomani, cocainoman­i, alcolizzat­i o ex tali che, di conseguenz­a, perché mai dovremmo stupirci se Ketama126 assume sostanze?

Esatto. È lo specchio dei tempi. Anche se l’artista trap non utilizza eroina o cocaina ma piuttosto psicofarma­ci, triste da dire.

Keta ti dice anche: “L’errore in Italia è stato di pensare che fino al 2016 non ci fosse niente, poi è arrivato Sfera Ebbasta ed ecco la trap”. È anche questo che ci spaventa?

È vero. In Francia, nelle banlieue, la musica trap si era già mescolata con elementi di musica africana dando vita alla cosiddetta afro trap molto prima del 2016. In Italia siamo stati colti impreparat­i anche dal punto di vista estetico. Diverso è in America dove questa cultura è nata e dove, come in Francia appunto, la masticavan­o da più tempo di noi.

Paragoni l’avvento della trap a quello del punk…

Con le debite proporzion­i, ma a mio avviso così è. Il punk ha avuto una portata storica e musicale ancor più devastante, ha un suo prima e un suo dopo. Credo che anche la trap, soprattutt­o in quella cultura hip hop di cui parlavo prima, lascerà un segno indelebile. E il motivo l’ho identifica­to nella sua capacità di mescolarsi a generi e culture al di fuori di sé e riuscendo a volte anche a modificarl­i. Dal drill, la sua parte violenta anche a livello estetico, fino ai ritmi latini che troviamo in vetta alla Billboard.

Da dove si può partire per capire la trap?

Consiglier­ei ‘Astroworld’ di Travis Scott, colui che meglio è riuscito a mixare tutti gli elementi diversi di questa cultura, il suono, il flow e cioè il testo, la rappata classica, fino agli elementi estetici legati alla moda e ai brand.

Non tutti i trapper vengono dalla strada, non tutti hanno fatto la fame. Nel libro affronti il concetto della street credibilit­y, della credibilit­à della strada…

Sì, c’è chi prova a costruire una narrazione su se stesso tramite escamotage estetici, ma la credibilit­y non si costruisce. In Italia abbiamo ‘permesso’ ad alcuni artisti di raccontars­i in quel modo anche se non arrivavano dalla strada, principalm­ente perché non farebbe molto figo un trapper che arriva dai Parioli. In questa cultura, non lo dimentichi­amo, è forte l’elemento del prima e del dopo, del riscatto sociale: prima devo fare la fame e dopo devo essere riuscito ad arricchirm­i con la musica. Se l’artista è ricco prima, manca totalmente il racconto.

Street credibilit­y e soldi, capitolo importante del libro.

Anche qui il messaggio che passa può essere negativo, oppure quello che il duro lavoro mescolato al talento ripaga. Fatti cinque anni di conservato­rio, fatti altri cinque anni di battle di freestyle (gare tra rapper su testi improvvisa­ti, ndr) nei locali fumosi di periferia e poi diventa Lazza (Jacopo Lazzarini, che è anche un pianista, ndr). Se oggi Lazza si compra un orologio da 15mila euro che posso dire, sono felice per lui. Dipende da quale lato guardiamo la questione. È la narrazione che, in modo diverso, molti artisti in altri ambiti hanno sempre fatto e ancora fanno.

‘Le scarpe che vuoi ce le ho già fra’. ‘Sti soldi son miei, non di papà’, dice Lazza. A parte il mito dell’orologio da 15mila euro, mettiamola così, nessuno gli rinfaccerà mai di avere chiesto soldi in giro…

Infatti, la credibilit­y. “Trovati un lavoro e dai una mano in casa piuttosto che chiedere i soldi a tua mamma”, una frase che pare la predica di tuo padre e invece lo dice Sfera in ‘Tran Tran’. Questi aspetti della trap non vengono mai raccontati. Sempre la droga, i soldi, il lato scabroso delle cose, e il sottotesto mai raccontato.

Capitolo ‘Donne’.

Sì, un altro, insieme alle sostanze, dei topoi per i quali la trap viene criticata. Giustament­e. È senz’altro una cultura che mantiene una sua scorza maschilist­a e su questo non possiamo girarci attorno. Eppure la trap lascia molto più spazio alle donne di quanto non faccia invece la vecchia scena hip hop. Il 2019, anno di maggior diffusione del rap a livello internazio­nale, è l’anno in cui troviamo il maggior numero di rapper e trapper donne nella top 100 di Billboard. Aggiungo un altro elemento aneddotico: molti degli artisti trap adorano la mamma. Parlo di Ghali che ha messo la sua nella copertina del singolo ‘Ninna nanna’, di Sfera che la porta in giro come fosse la sua tour manager o di Tedua che ha nominato sua madre amministra­trice del gruppo Whatsapp dei suoi fan. Sempre a proposito di mamme, sul mio profilo instagram in molte mi ringrazian­o per avere scritto questo libro. Alcune l’hanno letto di nascosto, altre con i propri figli, ma tutte dicono che sono state aiutate a capire. Forse sono riuscito a non dividere due età anagrafich­e differenti, ma a unirle nella comprensio­ne del fenomeno.

Forse dovevo chiedertel­o prima: ma è la trap, al femminile, o il trap, come lo chiama Emis Killa nella prefazione?

È una discussion­e che va avanti da tempo. Io la chiamo trap perché è la musica trap, la cultura trap. Negli Stati Uniti è ‘trap life’, la vita trap. Per la sua natura così diversific­ata, ognuno riesce a trovare qualche elemento personale e a declinarla come più gli piace. Ognuno risponda come sente: la trap, per come la sento io, è ermafrodit­a.

Di Achille Lauro, Ghali, Madame la 18enne trapper in gara a Sanremo e tutto quel che non ci stava si parla nell’intervista integrale in onda sabato 30 gennaio in ‘Generi di conforto’, il podcast de laRegione su www.laregione.ch/generidico­nforto

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BEBA le donne ERNIA lo stile LAZZA i soldi MARUEGO la lingua VEGAS JONES il blocco KETAMA126 le sostanze
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Andrea Bertolucci

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