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Come misurare il tempo di lavoro effettivo?

- Berenice Hudson*

Capita, ancora oggi nel terzo millennio, che i colleghi ci guardino con malcelata disapprova­zione se arriviamo in ufficio per ultimi. Allo stesso modo, possiamo incontrare qualche sopraccigl­io sollevato se abbandonia­mo la scrivania per primi per tornare a casa. I sindacati, poi, si sono spesso impuntati su rigide definizion­i del tempo di lavoro effettivo. Dato che la produttivi­tà di chi lavora, specialmen­te in occupazion­i complesse, è per sua natura difficile da misurare, la tentazione di associarla a qualcosa di immediatam­ente misurabile (le ore trascorse incollati alla scrivania) è senza dubbio forte. Tuttavia concentrar­si sul tempo effettivo trascorso in ufficio rischia di dare gli incentivi sbagliati. È noto, ad esempio, che in Giappone gli impiegati rimangono in ufficio più tempo del necessario, fino a notte fonda, quando non hanno più alcun compito da svolgere, pur di mostrare ai propri superiori la propria dedizione. Un simile comportame­nto si traduce dal punto di vista sociale in un puro e semplice spreco di risorse in quanto gli stessi lavoratori farebbero meglio ad andare a casa a dormire, in modo da essere più riposati e dunque in grado di commettere meno errori il giorno seguente. Nel suo libro “Deep work”, Cal Newport spiega che per effettuare un lavoro di alta qualità intellettu­ale è necessario ritagliars­i degli ampi spazi di tempo non interrotto da altre attività. Dunque la mattinata piena di telefonate, e-mail a cui rispondere immediatam­ente e riunioni con superiori e colleghi non rappresent­a effettivam­ente il contesto migliore per poter rif lettere e avere idee innovative. Ovviamente alcune attività lavorative, come ad esempio il servizio ai clienti oppure le attività di vendita e di management, non permettono di isolarsi dalle interruzio­ni. Tuttavia sono sempre più numerose le attività del settore terziario, e in particolar­e del cosiddetto terziario avanzato, che richiedono la capacità di studiare e risolvere problemi complessi, si pensi ad esempio a tutti i campi della ricerca scientific­a. Per svolgere compiti complessi Newport consiglia di isolarsi da tutte le distrazion­i (spegnere il cellulare, disattivar­e gli allarmi che avvertono della ricezione delle e-mail e così via) o se possible meglio ancora lavorare in una stanza priva di connession­e Internet. Certo, per molte attività, ad esempio di ricerca, Internet è indispensa­bile, ma in quel caso Newport consiglia di limitarne l’uso a dei momenti prestabili­ti e ben autodiscip­linati. Se si riesce ad essere concentrat­i e ad evitare le distrazion­i, ecco che non è più necessario trascorrer­e la gran parte della giornata alla scrivania. Al contrario, poche ore di lavoro intenso (deep work, appunto) possono valere più di un’intera giornata. L’attuale crisi della COVID, tra le altre cose, dovrebbe farci rif lettere ulteriorme­nte sul fatto che solo perché le persone stanno lavorando da casa non significa che non stiano producendo. Al contrario, in alcuni casi (si legga: in assenza di responsabi­lità di cura, ad esempio per dei bambini nel nucleo familiare) la produttivi­tà a casa potrebbe essere persino maggiore di quella abituale sul posto di lavoro. L’idea è che bisognereb­be concentrar­si di più su misure della qualità del lavoro svolto, piuttosto che della mera quantità di ore lavorate. * economista

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