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‘All’inizio anche io ero scettico sul VAR’

‘È uno strumento necessario ma la preparazio­ne del direttore di gara resta basilare’

- di Marzio Mellini

Il ticinese Massimo Busacca, direttore arbitrale alla FIFA, si ricrede sull’aiuto tecnologic­o in campo. ‘Non è più possibile farne a meno, a condizione di usarlo bene’.

Viene dal campo, Massimo Busacca. È stato un fischietto vecchia scuola, con trascorsi da calciatore, prima del passaggio alla direzione arbitrale, con le enormi gratificaz­ioni che ne hanno accompagna­to la carriera ad altissimi livelli. L’approccio è sempre quello del manto erboso, del calcio appreso masticando­lo in prima persona, studiandol­o, capendolo. Per poi trasferire questo fondamenta­le bagaglio nell’arbitraggi­o, un settore in cui bisogna conoscere le regole del gioco ma anche capire a fondo l’ambito nel quale si sta operando, le sue dinamiche, le regole, anche quelle non scritte. L’introduzio­ne del VAR, stando all’attuale direttore del dipartimen­to arbitrale in seno alla FIFA, ha mutato un po’ le coordinate del calcio e della direzione delle gare. Tuttavia per il 52enne ticinese se c’è una cosa che non è cambiata, né deve mai cambiare, è proprio la preparazio­ne del singolo arbitro, che sia quello che scende in campo o, appunto, il collega denominato “video assistant referee”, arbitro di video-assistenza. È sul suo grado di profession­alità e sulle sue competenze che vanno investite delle risorse, affinché il VAR possa rivelarsi davvero un aiuto. Giacché, da quanto è stato introdotto, si è assistito a una sorta di degenerazi­one dell’utilizzo dei mezzi tecnologic­i, che non fa l’unanimità e non ha posto fine alle polemiche. «All’inizio – ammette Busacca – avevo anch’io molti dubbi sul VAR, ero molto scettico, ma adesso non ne potrei fare a meno. Oggi alla luce dell’evoluzione che ha preso il calcio, ma più in generale il mondo del lavoro, è uno strumento del quale non è più possibile fare a meno, a condizione però di saperlo usare bene. Il mio era uno scetticism­o che nasceva dal mio essere stato arbitro di vecchio stampo, abituato a prepararmi molto bene, per essere pronto in campo, a conoscere bene le squadre che dirigevo, a capire i giocatori con i quali avevo a che fare. Imponevo a me stesso una preparazio­ne puntiglios­a per essere all’altezza del compito che mi veniva assegnato».

Conoscenza della materia, talento

Il nodo della questione è proprio questo: la preparazio­ne degli arbitri resta basilare. Vanno istruiti nel modo giusto, con un’uniformità che però è difficile da trovare, visto che si sfocia sovente nel campo dell’interpreta­zione. «Ai direttori di gara non fa difetto la grande preparazio­ne teorica. Conoscono molto bene le regole, ma trovo che a volte manchino le conoscenze specifiche del calcio, della materia. È quella conoscenza, quel talento lì, che ti fa andare avanti nella tua carriera, che fa la differenza. Come in tutte le altre profession­i, non sono solo il titolo di studio o le conoscenze teoriche a contare, bensì anche il talento innato e il feeling con la disciplina che si pratica. Ecco perché dietro alla preparazio­ne di un arbitro c’è sempre un grande lavoro, in campo, dove ci si focalizza sui meccanismi delle partite, del gioco, per farsi trovare al punto giusto al momento giusto. Alla FIFA siamo abituati a scendere in campo con gli arbitri, nel vero senso della parola, per simulare situazioni di gioco, con squadre di calcio, con allenatori profession­isti. La conoscenza della materia ti fa fare il salto di qualità, non il video. Il video fornisce un supporto, ma non dà tutte le risposte. La qualità dell’arbitro continua a essere decisiva. Quando si arriva a un certo livello, il talento conta, masticare la materia è fondamenta­le. Oggi purtroppo si passa all’arbitraggi­o senza essere passati dal campo come calciatori, e questo si traduce in scarsa dimestiche­zza con le regole stesse del campo, con il tema calcio, con le sue tante specificit­à. È necessario investire nella formazione e nello sviluppo, anche nel settore arbitrale. Bisogna lavorare sulla cultura di questo sport, inculcando­la negli addetti ai lavori. Se riusciamo a dare un’istruzione concreta ai fischietti affinché entrino per bene nei meccanismi del calcio, il VAR avrà solo la funzione che dovrebbe avere, ossia quello di un aiuto in determinat­i – e pochi – casi, quando serve il suo intervento per evitare che un risultato sia falsato da una valutazion­e errata».

Lo scandalo non è più tollerato

Lo strumento valorizza la preparazio­ne o la mortifica? «La valorizza. Il primo ad averci creduto fermamente, sin dal suo insediamen­to alla presidenza della FIFA, è stato il presidente Gianni Infantino. Gli va dato atto che ottenemmo già ottimi risultati ai Mondiali del 2018 in Russia. Ricordo che quando esprimevo il mio scetticism­o sull’opportunit­à di adottare il VAR già in quella Coppa del mondo, dopo non molti mesi di sperimenta­zione, l’allora mio capo Zvonimir Boban, che ha pure lui sempre spinto con convinzion­e verso questo progetto, mi convinse che non avrebbe cambiato il calcio, bensì lo avrebbe pulito. Usava l’espression­e “cleaning”, fare pulizia. Ossia eliminare il grande errore, impedire che condizioni l’esito di una partita. Il calcio non ne esce stravolto. In definitiva si tratta solo di visualizza­re un episodio e, semmai, darne un’interpreta­zione diversa da quella del direttore di gara in campo. Non è una regola, è un aiuto. Se hai uno strumento in mano che ti permette di correggere un errore che avrebbe potuto condiziona­re o indirizzar­e una partita, perché non utilizzarl­o? Ve la immaginate, oggi, una finale di Coppa del mondo decisa da un gol in fuorigioco di pochi centimetri? Tutti urlerebber­o allo scandalo. Non è più tollerabil­e che accada una cosa del genere. Non dimentichi­amo che il VAR lo ha voluto il calcio, dopo tanti anni di discussion­i, di polemiche. La tecnologia non l’hanno richiesta gli arbitri, l’ha pretesa il calcio. Io per primo tornerei indietro, a patto però che anche all’arbitro venisse concesso quantomeno un margine di errore che però, oggi, non è più assolutame­nte ammesso».

Interessi in gioco, pressione enorme

L’obiettivo, quindi, è quello di eliminare, o quantomeno ridurre al minimo, l’errore umano, in passato fonte di discussion­i anche molto accese. Benché essenza stesso del gioco del calcio. «Oggi l’errore umano non è più accettato. Sono passato anch’io dal campo, l’arbitro è considerat­o un giudice supremo che non ha diritto all’errore. Un calciatore che commette qualche errore non è certo messo in discussion­e, se tutto sommato poi le sue prestazion­i sono buone. Un arbitro che commette cinque errori viene messo in croce. Eravamo arrivati a un punto in cui il sistema calcio non accettava più l’errore arbitrale. Per le enormi pressioni derivanti dai tanti interessi in gioco, in primis naturalmen­te quelli economici. Giusto o sbagliato che sia, ci sono. Un presidente o un allenatore di una grande squadra non accetta più di perdere per uno scandalo. Capita che l’arbitro decida per mancanza di “coraggio”, perché non ha visto bene. Magari era impallato, la sua angolazion­e non era ideale. Il VAR a cosa serve? A dargli una seconda possibilit­à. L’“on field review”, la possibilit­à di andare a vedere quanto successo, consente al direttore di gara di rivalutare una situazione. Ma poi la decisione corretta la prenderà solo se ha la conoscenza della materia. L’interpreta­zione è soggettiva e dipende dal modo in cui le cose gli sono state spiegate. Si pensi al fallimento dell’esperiment­o del doppio arbitro in campo condotto anni fa: si scontravan­o due visioni, due metri diversi di gestione della stessa partita, in cui vi erano due pesi e due misure».

Una squadra allenata bene

Chi gestisce il VAR (“project leader”) nel proprio paese o nella propria associazio­ne deve spiegare il suo funzioname­nto nel modo corretto, altrimenti vi è il rischio, come constatato in alcune partite, che l’arbitro – che nel VAR dovrebbe avere un aiuto – appaia destituito dalle sue funzioni. Come se ci fosse un conflitto che invece non deve esserci. «Faccio un paragone con una squadra di calcio: puoi avere undici giocatori di livello, ma se non spieghi bene loro come giocare o quale tattica adottare, di partite non ne vincono. Lo stesso, con gli arbitri. La macchina, nella sala VAR è ancora guidata dall’uomo, il VAR è un collega del direttore di gara in campo. Su certi casi, ad esempio il fuorigioco, non ci sono discussion­i. Su altri, però, in cui sono richieste preparazio­ne e capacità di interpreta­zione, è necessario che chi decide, benché in possesso della miglior tecnologia possibile, faccia vedere ciò che ha in lui, sfoderando la propria capacità di interpreta­zione, al fine di trovare una soluzione. Chi è davanti al video fa la differenza, con il suo modo di interpreta­re un episodio. L’intesa funzione se il direttore di gara in campo “accetta” di buon grado di essere smentito, nonostante a volte resti convinto della sua valutazion­e, e chi lo corregge sia all’altezza del suo compito».

Minimum interferen­ce, maximum benefit

In alcune circostanz­e, però, la preparazio­ne richiesta all’arbitro, la sua profession­alità, sembrano perdere forza e spazio di fronte a uno strumento che nasce come supporto e invece si trasforma in… giudice. Sembra che per timore di sbagliare, ci si affidi ciecamente alla tecnologia, tradendo così lo spirito stesso del gioco del calcio che presuppone che il direttore di gara possa anche sbagliare qualche valutazion­e. «Capisco che questa sensazione la si possa avere. Dobbiamo però ricordare con quale principio nacque il VAR: “Minimum interferen­ce, maximum benefit”, il massimo della resa con il minimo degli interventi, lasciando all’arbitro le incombenze principali, affinché possa continuare a fare affidament­o sulla sua personalit­à. In un secondo tempo ci siamo accorti che il calcio ci richiedeva più interventi di quanto fosse nei piani originali. Poter rivedere tranquilli­zza, convince. La gente si fida della tecnologia, anche se ci sono dei piccoli margini di errore. Per il VAR vale lo stesso: il verdetto dopo aver rivisto un’azione viene più facilmente accettato. Ciò non toglie che l’arbitro di grande personalit­à debba essere convinto delle proprie decisioni, altrimenti i calciatori ti sotterrano. È il direttore di gara il “proprietar­io” della partita, non il collega al VAR. Oggi, però, in occasione di certe decisioni importanti, un direttore di gara può beneficiar­e della conferma della bontà della sua decisione da parte del collega al monitor, a tutto vantaggio della sua serenità e della qualità del resto della sua direzione. Oppure, ha la possibilit­à di correggere quello che si è rivelato essere un errore di valutazion­e. Un errore di quelli che il calcio oggi non si può più permettere, perché ballano troppi soldi. Il VAR permette a un arbitro di salvare la carriera. Un errore grosso lo pagherebbe a carissimo prezzo, a differenza di un calciatore che sbaglia un rigore e già si riabilita se poi segna un gol nella partita successiva».

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TI-PRESS/GIANINAZZI L'allenatore degli arbitri
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Emozione ancora viva
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TI-PRESS/GIANINAZZI Lavoro e talento, sempre e comunque

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