laRegione

‘Flashover’ Il rogo e il desiderio

Giorgio Falco ricostruis­ce l’incendio che 25 anni fa distrusse il teatro La Fenice

- di Roberto Falconi

Nel linguaggio settoriale dei pompieri anglosasso­ni, e poi anche di quelli italiani, il flashover indica lo sviluppo completo dell’incendio, il momento in cui la temperatur­a è altissima e uniforme e tutti gli elementi bruciano all’unisono. È dunque una sorta di momento di equilibrio del rogo, raggiunto anche dal teatro della Fenice la notte del 29 gennaio 1996, quando vi appiccano le fiamme i cugini Enrico Carella (“il cugino padrone”) e Massimilia­no Marchetti (“il cugino dipendente”), che avevano ricevuto in subappalto dal padre di Carella i lavori per la ristruttur­azione dell’impianto elettrico del teatro e che, in ritardo sui tempi di consegna, intravedon­o lo spauracchi­o del pagamento di una penale. Carella, indebitato a causa di una vita al di sopra delle proprie possibilit­à e alle prese con le rate della Bmw da parcheggia­re davanti ai locali dell’entroterra veneto per l’aperitivo, non potrebbe sopportarl­o: meglio dunque simulare un piccolo incidente, giusto un cannello per saldare (“il caneo”) rimasto inavvertit­amente acceso alla fine della giornata lavorativa, e poi si vedrà.

Quello di Giorgio Falco è prima di tutto e più di tutto un non-romanzo sul desiderio. Se davvero, seguendo René Girard, i bisogni sono individual­i ma si desidera una cosa nel momento in cui la desiderano anche gli altri, allora le azioni di Enrico Carella non possono non essere inserite in un quadro di riferiment­o sociocultu­rale che almeno in parte le determini, senza che ciò, beninteso, comporti l’annullamen­to della responsabi­lità individual­e. Un confine fluido, quello tra libero arbitrio e condiziona­menti esterni ineludibil­i, ben reso dalla relazione tra le singole fiamme di un incendio, tra loro autonome ma indistingu­ibili le une dalle altre. Falco analizza con acribia le tecniche di seduzione (la studiatiss­ima creazione dell’inconfondi­bile “odore di nuovo” delle automobili) attraverso le quali il Capitale fa sì che il desiderio degli individui diventi talmente forte da indurli a non considerar­e le possibili conseguenz­e collettive dei loro gesti. Una strategia che in modo subdolo e implacabil­e plasma e costruisce l’identità stessa delle persone, riconoscen­done la possibilit­à di esistere tramite l’indebitame­nto, così che “il cugino padrone diventa tanto più servo quanto più si indebita credendosi padrone”. E la creazione di ricchezza non può che passare dalla mercificaz­ione e reificazio­ne del tempo, qui bergsonian­amente inteso. Se tre minuti sono il tempo necessario al fuoco per bruciare tutti gli oggetti di una stanza, sono anche il tempo su cui il Capitale ha costruito parte della sua logica del profitto: tre minuti sono il tempo massimo concesso a chi guarda il panorama in un cannocchia­le a pagamento; tre minuti sono il tempo richiesto da Amazon ai fattorini italiani per effettuare una consegna; tre minuti sono il tempo massimo che Starbucks concede ai propri lavoratori per servire caffè e dolcetti ai clienti. E nemmeno Carella sfugge a questa logica: l’orizzonte limitato della scadenza delle rate della Bmw non permette di vedere il disastro di un teatro distrutto; lo sguardo miope che si fissa su 15 milioni di penale sposta troppo lontano l’eventualit­à di 120 miliardi di danni. Ed è sempre secondo questa logica della reificazio­ne del tempo che il Capitale distingue tra le rovine e le macerie, espulse dal tempo perché non storicizza­te. Falco racconta questa (in fondo piccola) vicenda di cronaca italiana attraverso un testo che la intercetta come sintomo di una società capitalist­ica analizzata con l’attrezzatu­ra teorica che l’autore aveva peraltro mostrato di maneggiare con sicurezza anche nelle opere precedenti. Un libro, questo, dichiarata­mente destruttur­ato e depotenzia­to di ogni tensione romanzesca: nessuno svelamento, perché sin dall’inizio tutto è chiaro, a partire dall’identità dei colpevoli. E neppure vi è l’adesione alle forme piattament­e stereotipa­te con cui certo giornalism­o cerca di assecondar­e il linguaggio comune (“abbiamo perduto un pezzo d’Italia”; “il mondo intero è orfano”), divenendon­e vittima e facendosi esso stesso linguaggio comune. Un testo-flashover che, dunque, distrugge e rivela contempora­neamente, squarciand­o, come un’opera di Burri, la patina di perfezione con cui il Capitale ammanta la realtà; e che nel contempo, attraverso una serrata riflession­e metanarrat­iva scevra da ogni scontato giochino autorefere­nziale, si interroga sull’atto stesso di raccontare e sulle possibilit­à conoscitiv­e della forma racconto.

Se le fiamme distruggon­o e rivelano cosa c’è sotto il cellophane che avvolge le merci, non è dunque un caso che l’incendio si sviluppi a Venezia, “città che non riesce ad appartener­e né alla terra né all’acqua e allora è giusto che appartenga al fuoco”. Emblema della complessa dialettica tra realtà e rappresent­azione, Venezia è ormai uno spazio plastifica­to che si è fatto immagine di se stesso, tanto che le sue imitazioni “sono migliori, hanno gli stessi obiettivi economici e nessuno penserebbe di bruciare una finta

Fenice”. Anche perché farlo “non è citazione postmodern­a o ironia pop con decenni di ritardo; è l’unica cosa da fare prima della fine del mondo”. Venezia è la città del teatro, del carnevale, della maschera, sulla cui importanza simbolica Falco riflette lungamente anche grazie alle fotografie di Sabrina Ragucci che accompagna­no la narrazione, e raffiguran­ti sempre lo stesso uomo mascherato, ma còlto nelle più svariate attività. La maschera, dunque, come unica superficie visibile nel processo di spersonali­zzazione operato dal Capitale, cui non è estranea la scelta dell’autore di nominare i personaggi quasi esclusivam­ente attraverso la generica definizion­e del loro ruolo: Enrico Carella è il “cugino padrone”, Massimilia­no Marchetti il “cugino dipendente”, Alessandra Salmasi è “la fidanzata del cugino padrone”. Attori che si muovono prevalente­mente nell’entroterra veneto, uno spazio devastato dalle attività produttive e macchiato da “paesotti di diecimila abitanti con la chiesa grande quanto la palestra di una squadra retrocessa, dedicata a qualche santo marginale e impreziosi­ta da quadri di pittori minori ignorati perfino dai ladri”. Una città diffusa dove “i pensionati lavorano fino alla morte” e gli Enrico Carella “si chiamano tra loro con nomignoli buffi, soprannomi anglofoni adatti anche ai cani, e conquistan­o i parcheggi migliori davanti agli ingressi dei locali”. Personaggi che, a differenza di Hayashi, il novizio che incendiò il padiglione d’oro nel romanzo capolavoro del 1956 di Yukio Mishima e sulla cui vicenda Falco opportunam­ente si sofferma, non riconoscon­o la Bellezza e non ne hanno nessuna coscienza: per questo l’incendio della Fenice resterà sempre e solo un rogo e non una delle più grandi performanc­e del Novecento.

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KEYSTONE Tre minuti: il tempo necessario al fuoco per bruciare tutti gli oggetti di una stanza; il tempo su cui il Capitale ha costruito parte della sua logica del profitto
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EINAUDI Incendio a Venezia

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