‘Flashover’ Il rogo e il desiderio
Giorgio Falco ricostruisce l’incendio che 25 anni fa distrusse il teatro La Fenice
Nel linguaggio settoriale dei pompieri anglosassoni, e poi anche di quelli italiani, il flashover indica lo sviluppo completo dell’incendio, il momento in cui la temperatura è altissima e uniforme e tutti gli elementi bruciano all’unisono. È dunque una sorta di momento di equilibrio del rogo, raggiunto anche dal teatro della Fenice la notte del 29 gennaio 1996, quando vi appiccano le fiamme i cugini Enrico Carella (“il cugino padrone”) e Massimiliano Marchetti (“il cugino dipendente”), che avevano ricevuto in subappalto dal padre di Carella i lavori per la ristrutturazione dell’impianto elettrico del teatro e che, in ritardo sui tempi di consegna, intravedono lo spauracchio del pagamento di una penale. Carella, indebitato a causa di una vita al di sopra delle proprie possibilità e alle prese con le rate della Bmw da parcheggiare davanti ai locali dell’entroterra veneto per l’aperitivo, non potrebbe sopportarlo: meglio dunque simulare un piccolo incidente, giusto un cannello per saldare (“il caneo”) rimasto inavvertitamente acceso alla fine della giornata lavorativa, e poi si vedrà.
Quello di Giorgio Falco è prima di tutto e più di tutto un non-romanzo sul desiderio. Se davvero, seguendo René Girard, i bisogni sono individuali ma si desidera una cosa nel momento in cui la desiderano anche gli altri, allora le azioni di Enrico Carella non possono non essere inserite in un quadro di riferimento socioculturale che almeno in parte le determini, senza che ciò, beninteso, comporti l’annullamento della responsabilità individuale. Un confine fluido, quello tra libero arbitrio e condizionamenti esterni ineludibili, ben reso dalla relazione tra le singole fiamme di un incendio, tra loro autonome ma indistinguibili le une dalle altre. Falco analizza con acribia le tecniche di seduzione (la studiatissima creazione dell’inconfondibile “odore di nuovo” delle automobili) attraverso le quali il Capitale fa sì che il desiderio degli individui diventi talmente forte da indurli a non considerare le possibili conseguenze collettive dei loro gesti. Una strategia che in modo subdolo e implacabile plasma e costruisce l’identità stessa delle persone, riconoscendone la possibilità di esistere tramite l’indebitamento, così che “il cugino padrone diventa tanto più servo quanto più si indebita credendosi padrone”. E la creazione di ricchezza non può che passare dalla mercificazione e reificazione del tempo, qui bergsonianamente inteso. Se tre minuti sono il tempo necessario al fuoco per bruciare tutti gli oggetti di una stanza, sono anche il tempo su cui il Capitale ha costruito parte della sua logica del profitto: tre minuti sono il tempo massimo concesso a chi guarda il panorama in un cannocchiale a pagamento; tre minuti sono il tempo richiesto da Amazon ai fattorini italiani per effettuare una consegna; tre minuti sono il tempo massimo che Starbucks concede ai propri lavoratori per servire caffè e dolcetti ai clienti. E nemmeno Carella sfugge a questa logica: l’orizzonte limitato della scadenza delle rate della Bmw non permette di vedere il disastro di un teatro distrutto; lo sguardo miope che si fissa su 15 milioni di penale sposta troppo lontano l’eventualità di 120 miliardi di danni. Ed è sempre secondo questa logica della reificazione del tempo che il Capitale distingue tra le rovine e le macerie, espulse dal tempo perché non storicizzate. Falco racconta questa (in fondo piccola) vicenda di cronaca italiana attraverso un testo che la intercetta come sintomo di una società capitalistica analizzata con l’attrezzatura teorica che l’autore aveva peraltro mostrato di maneggiare con sicurezza anche nelle opere precedenti. Un libro, questo, dichiaratamente destrutturato e depotenziato di ogni tensione romanzesca: nessuno svelamento, perché sin dall’inizio tutto è chiaro, a partire dall’identità dei colpevoli. E neppure vi è l’adesione alle forme piattamente stereotipate con cui certo giornalismo cerca di assecondare il linguaggio comune (“abbiamo perduto un pezzo d’Italia”; “il mondo intero è orfano”), divenendone vittima e facendosi esso stesso linguaggio comune. Un testo-flashover che, dunque, distrugge e rivela contemporaneamente, squarciando, come un’opera di Burri, la patina di perfezione con cui il Capitale ammanta la realtà; e che nel contempo, attraverso una serrata riflessione metanarrativa scevra da ogni scontato giochino autoreferenziale, si interroga sull’atto stesso di raccontare e sulle possibilità conoscitive della forma racconto.
Se le fiamme distruggono e rivelano cosa c’è sotto il cellophane che avvolge le merci, non è dunque un caso che l’incendio si sviluppi a Venezia, “città che non riesce ad appartenere né alla terra né all’acqua e allora è giusto che appartenga al fuoco”. Emblema della complessa dialettica tra realtà e rappresentazione, Venezia è ormai uno spazio plastificato che si è fatto immagine di se stesso, tanto che le sue imitazioni “sono migliori, hanno gli stessi obiettivi economici e nessuno penserebbe di bruciare una finta
Fenice”. Anche perché farlo “non è citazione postmoderna o ironia pop con decenni di ritardo; è l’unica cosa da fare prima della fine del mondo”. Venezia è la città del teatro, del carnevale, della maschera, sulla cui importanza simbolica Falco riflette lungamente anche grazie alle fotografie di Sabrina Ragucci che accompagnano la narrazione, e raffiguranti sempre lo stesso uomo mascherato, ma còlto nelle più svariate attività. La maschera, dunque, come unica superficie visibile nel processo di spersonalizzazione operato dal Capitale, cui non è estranea la scelta dell’autore di nominare i personaggi quasi esclusivamente attraverso la generica definizione del loro ruolo: Enrico Carella è il “cugino padrone”, Massimiliano Marchetti il “cugino dipendente”, Alessandra Salmasi è “la fidanzata del cugino padrone”. Attori che si muovono prevalentemente nell’entroterra veneto, uno spazio devastato dalle attività produttive e macchiato da “paesotti di diecimila abitanti con la chiesa grande quanto la palestra di una squadra retrocessa, dedicata a qualche santo marginale e impreziosita da quadri di pittori minori ignorati perfino dai ladri”. Una città diffusa dove “i pensionati lavorano fino alla morte” e gli Enrico Carella “si chiamano tra loro con nomignoli buffi, soprannomi anglofoni adatti anche ai cani, e conquistano i parcheggi migliori davanti agli ingressi dei locali”. Personaggi che, a differenza di Hayashi, il novizio che incendiò il padiglione d’oro nel romanzo capolavoro del 1956 di Yukio Mishima e sulla cui vicenda Falco opportunamente si sofferma, non riconoscono la Bellezza e non ne hanno nessuna coscienza: per questo l’incendio della Fenice resterà sempre e solo un rogo e non una delle più grandi performance del Novecento.