Moderati inquieti e la sfida (impossibile) della riconciliazione
La solita levataccia per Scott Ditter, occhi cerulei dietro lenti appannate nel gelo sferzante delle campagne del Wisconsin. Ha appena finito di mungere le sue 50 mucche in una stalla color rosso mattone che pare di essere in Svezia. Ora davanti a un caffè in casa sua si sta meglio. Le dita spesse stringono la tazza per il necessario beneficio termico. “Non si può più parlare di politica nemmeno con gli amici. Nemmeno davanti a una birra” mi disse scuotendo la testa. Ero andato a trovare questo allevatore di 65 anni a Plymouth, la sedicente “Capitale mondiale del formaggio” (ditelo agli Svizzeri!). Più probabilmente, l’epicentro caseario d’America, col suo cheddar a cui bisogna per forza adattarsi se si vive da questa parte dell’Oceano.
Era febbraio 2019. Lui, democratico inquieto che si era convinto controvoglia a votare per Trump tre anni prima, raccontava del suo disagio. Della difficoltà a confrontarsi pacatamente sui temi della vita quotidiana e sui sussidi ai produttori di latte. Ho incontrato di nuovo Scott qualche settimana fa, con una brezza quasi invernale ma non le lame di vento tagliente della volta prima.
Una metamorfosi completata. Il bombardamento estenuante di notizie false della Fox News lo aveva centrato. Colpito. E affondato. Addio senso critico. Avanti tutta con le cospirazioni e le menzogne rilanciate da Trump e dalla sua pletora di lacchè impenitenti. Una realtà parallela che ha messo in subbuglio i pensieri di questo allevatore del Wisconsin. E di migliaia di sostenitori del presidente che non hanno esitato ad affiancare le frange estremiste e notoriamente facinorose nell’assalto al Congresso lo scorso 6 gennaio.
Un’inquietudine – proprio come il moderato signor Ditter - che per alcuni, anzi tantissimi, si è radicalizzata sfociando in violenza aperta contro le istituzioni. Ma non per tutti. C’è pure chi vive questo disagio dentro le istituzioni. A tre ore d’auto da Washington.
Il sindaco inquieto
Per Justin Taylor è proprio questo il punto. Da che parte stare. Lui da 17 anni è il sindaco della cittadina di Carbondale, che significa “la valle del carbone”. Aveva 25 anni quando venne eletto la prima volta. Ora, al suo quinto mandato, è un democratico in crisi profonda. Qui, nelle viscere della Rust Belt della Pennsylvania, il 92% degli abitanti è bianco. Questa comunità ha votato per Obama due volte, poi Trump nel 2016 e ancora per lui per un soffio di voti alle ultime elezioni, malgrado Biden sia nato a una manciata di chilometri da qui. Tra le macerie post-industriali (con le rovine di impieghi andati persi) si respira quel malcontento trasformato in una nube di retorica tossica peggiore delle esalazioni di queste colline sventrate per estrarne antracite. Mi siedo col sindaco nel suo ufficio, al primo piano di questo elegante municipio di mattoni rossi di fine Ottocento, vestigia del passato industriale. Qui nel 1831 venne aperta la prima miniera sotterranea di carbone d’America.
Qui fu messa sui binari la prima locomotiva degli Stati Uniti, per portare i carichi di “coal” fino al canale e diventare poi un collegamento con New York e Filadelfia. Deindustrializzazione e ruggine hanno eroso certezze di una busta paga che garantiva uno status da classe media. Non è cambiato solo il panorama economico. Ma anche quello politico. Il partito – sospira Taylor, oggi 42enne – “non è più lo stesso, i democratici non tollerano più le opinioni diverse”. C’è un senso di stanchezza nelle sue parole, che fa vacillare l’appartenenza identitaria, i valori. Ma resta comunque il senso civico, totalmente assente invece tra coloro che non hanno esitato ad affiancare le milizie armate suprematiste nella marcia sul Congresso. A istigarle – secondo l’accusa contenuta nell’impeachment – è stato proprio l’ormai ex “twittatore-in-capo”.
La psicologa degli sconfitti
Quel vuoto nel partito democratico non l’ha percepito solo il sindaco di Carbondale. “I democratici non hanno saputo rivolgersi a un’intera fascia di americani, per anni. Non sono stati capaci di comprenderli, li hanno persino insultati”. Trump – invece – ha intercettato quel vuoto e “lo ha riempito in modo tossico”. Mi dice così Diane Perlman. È una psicologa che si occupa di conflitti politici e riconciliazione. Studia gli sconfitti. Come i trumpiani che non hanno assaltato il Congresso. Ma che sono convinti che lui abbia vinto. “Provano un senso di umiliazione per la sconfitta di Trump.
E io provo compassione per chi lo ha sostenuto, compreso mio fratello. Spero possano essere aiutati a sentirsi meglio” aggiunge Diane. La incontro davanti alla chiesa di San Matteo apostolo nel centro di Washington. Sono appena passate le 9 del mattino, Joe Biden è da poco arrivato per una funzione religiosa nel giorno del suo insediamento. Tra poco giurerà sulla Bibbia per diventare il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Ha voluto invitare i leader del Congresso di entrambi gli schieramenti. Ma che senso ha parlare di “riconciliazione” se decine di milioni di americani – almeno 30 o 40 secondo diversi sondaggi – sono davvero convinti che Trump abbia vinto? “Non c’è spazio per il dialogo”, chiosa la psicologa. “Serve una persona come Abraham Lincoln” sospira un attimo dopo il senatore del Delaware Tom Carper, 74 anni, amico e a lungo collega di Biden. Lo incrocio mentre tiene in mano un caffè d’asporto nel solito bicchierone di carta col tappo di plastica. Allunga il passo verso la chiesa. Che ovviamente è blindatissima. In una Washington sotto assedio.
L’assedio di Joe e la luce di Amanda
Nella guerra “incivile” di quest’America – come la chiama Biden nel suo discorso d’insediamento poco dopo – non c’è un Lincoln. Ma ci sono le barricate lungo Pennsylvania Avenue. Il filo spinato intorno al Congresso. I checkpoint lungo K Street come a Baghdad ai tempi in cui gli americani pensavano di “esportare” la democrazia. Quella democrazia adesso “messa alla prova che ha comunque resistito”, scandisce il nuovo presidente nel suo intervento davanti a un Mall spettrale. Senza pubblico e con le bandierine per i morti di Covid-19. Si chiude formalmente l’epoca di Trump. Si era aperta col messaggio tetro del “massacro” degli americani. Che è avvenuto per mano del virus. Ora risuona un nuovo lessico: dignità, decoro, rispetto. Ma sul palco davanti al Congresso risplende la speranza in rima della poetessa Amanda Gorman. Che incanta l’America. La luce, il coraggio di vederla ed esserla.