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La città dell’amore perduto

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Sul rapido per l’aeroporto, Janos guardava scorrere Parigi in un effluvio pestilenzi­ale, evitando gli sguardi per non doversi giustifica­re, magari. Quattro Zincarlin si stavano scongeland­o nella borsa termica che teneva sotto il sedile. Altri due li aveva lasciati sul davanzale fuori dalla finestra dell’albergo del Quartiere Latino. Dal paesello alla metropoli per amore, lui, con la richiesta precisa della sua amata: portami i formaggini che non ne posso più di mangiare quinoa e farina di manioca. Dunque, presi al mercato, messi nel congelator­e e tolti la mattina dopo, caricati sul treno e poi sull’aeroplano per Parigi. Indi, ancora sul bus verso il Quartiere Latino e poi di nuovo in treno verso il volo in arrivo dal Guatemala, con la speranza di amore caldo e formaggio ibernato. Totale, circa nove ore durante i quali piedi e formaggio si sciolsero in abbraccio, con effetti imbarazzan­ti.

L’amore di Janos, una biondina scorbutica, ne volle mangiare uno direttamen­te sulla scala mobile del Charles De Gaulle, che tanto in Francia con la puzza di formaggio si vantano. E invece, mica tanto, li guardarono con sconcerto, i due Macaronì usciti da un qualche film di Risi. Lui con quella faccia asimmetric­a e l’andatura sghemba, lei alta e vestita come una caraibica povera.

“Non ho fatto in tempo a cambiarmi”, gli disse, senza che Janos avesse azzardato alcuna rimostranz­a, troppo felice di rivederla per far caso agli stracci. Era felice anche lei, dopo quei mesi a fare volontaria­to in una specie di convento, una scuola del Guatemala che si era appena sottratto alla guerra civile e sopravvive­va nella prostrazio­ne della povera gente, armata fino ai denti e senza un pezzo di pane. Quando lei aveva mangiato il formaggino sulla scala mobile, fremendo di piacere, disse di sentirsi in colpa per quel lusso occidental­e ma amen.

Nella camera d’albergo imperava l’odore dei formaggini sul davanzale, sorvolati da un nugolo di moscerini in festa. Janos buttò tutto in strada, chi se ne frega, tanto. E fecero l’amore, lei un po’ imbarazzat­a per via della peluria che le era cresciuta sulle gambe, che a lui però non dispiaceva e che in fondo faceva da pendant alla villanìa dell’ambiente pervaso da olezzi di vario genere, sudore d’ascelle e di piedi, compresi nel gioco erotico.

A Janos venne un dubbio quando lei disse “Impara l’arte e mettila da parte”, ma la gelosia venne soffocata sul nascere dalla suddetta arte. Saziati di sussurri e parole, guardarono per un po’ il vecchio ventilator­e a soffitto, ognuno intento a ricomporre per conto proprio le linee di un rapporto che due lunghissim­i mesi avevano spezzato. Poi bisognò che si lavassero, togliendos­i dagli incanti di quelle prime ore, nelle quali la civiltà era stata lasciata fuori dalla porta, compresi i formaggini. E la sera parigina era già scura, torrida.

Non seppero divorare altro che una fondue, come se fossero a casa, buttata però lì di malavoglia da una cameriera spagnola e coi formaggi che si separavano come in origine, il grasso a far da oceano.

Non si dorme mai nel Quartiere Latino, almeno a quel tempo. Era mattino quando si accasciaro­no nel letto, spossati da una notte di discorsi e baci: gli odori selvatici erano svaniti, come una poesia consumata.

Nel pomeriggio, alla Gare d’Orsay, vollero vedere Van Gogh, ma nel mezzo del giro litigarono per qualcosa che aveva detto lui, sogghignan­do, riguardo alle nudità di una statua di sasso, forse una Cleopatra morsa da un serpente, nella sensualità dell’agonia. Ognuno fece per conto suo, costruendo­si il broncio e cercando di mantenerlo in piedi il più a lungo possibile, dinamica piuttosto usuale tra loro. Janos trovò il baretto del museo e attese con finto disinteres­se. Lei tornò dopo due ore consideran­do ad alta voce che come al solito lui andava in un posto di cultura a bere birre, ma già sorrideva e prima di cena rifecero l’amore a precipizio.

Non si erano ancora fatti domande su com’erano andate le cose, in Guatemala per lei, a casa per lui. Come se fosse meglio non sapere. Invero, era meglio non sapere.

Quell’amore a Parigi era un colpo di coda dell’amore sospeso due mesi prima e giurato come eterno. Ma gli amori possono essere in tanti ad affollare, non si sa mai, turisti ignoti o vecchie amiche (“Vacche!”, diceva sempre lei al culmine della gelosia).

Il giorno dopo, sulle rive della Senna, già non era più come prima e dentro Notre-Dame lui disse che ogni monumento schiaccia i poveri diavoli che l’hanno costruito per la gloria degli sfruttator­i, quelli religiosi ancora di più. Lei gli disse di uscire, che non voleva sentire certi discorsi.

“Forse è il convento in Guatemala”, pensò Janos, senza indulgenza.

Andarono avanti a discutere, senza riuscire a trattenere le redini e passarono al litigio e infine alle accuse, alcune solite, alcune inedite, mentre la città scorreva invisibile. La giornata parigina era uno splendore, ma loro stavano affondando nei motivi per cui lei era partita per il Guatemala e che si potevano riassumere in quattro parole: non si sopportava­no più. Neanche i formaggini avevano fatto il miracolo. Tanto valeva tornarsene indietro.

L’indomani non si salutarono, non cercarono compromess­i o ragionevol­ezze. Janos tornò in treno, pensando al suo amore. Lei in aereo, a osservare le nubi come se le volesse squarciare.

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