Protezionismo, la (nuova) regola del gioco
Vaccini, un altro scivolone della globalizzazione
Se le vicende dei vaccini prefigurano il futuro – e qualcosa certamente raccontano – la globalizzazione sta facendo un altro scivolone all’indietro. A cominciare dal commercio internazionale. Nazionalismo e protezionismo – sanitari nel caso di questi giorni – stanno diventando la regola del gioco. Ciò che si temeva mesi fa e che è accaduto. Il caso più eclatante è la disputa tra Unione europea, in teoria il paladino supremo dei mercati aperti e delle regole, e AstraZeneca, con il Regno Unito di Boris Johnson trascinato nel conflitto.
Ma nazionalismo dei vaccini si registra negli Stati Uniti di Joe Biden, dai quali dosi usciranno quando sarà certa la fornitura per gli americani. E anche la Cina – a nome della quale Xi Jinping aveva promesso la creazione di una Nuova Via della Seta Sanitaria sulla quale fare viaggiare anche i vaccini – ne esporta più con obiettivi geopolitici che altro. E lo stesso è vero per Russia e India. Covax, l’alleanza per garantire le vaccinazioni nei Paesi più poveri, non decolla. Che i governi si sentano obbligati a pensare prima di tutto ai cittadini del loro Paese è comprensibile e per molti versi giusto. Ma la mancata collaborazione internazionale durante la pandemia e la crisi più grave da decenni è una cattiva semina per le relazioni future tra Paesi. E questo capita mentre nel commercio globale è in atto una controrivoluzione dopo decenni di aperture.
I movimenti
Le merci scambiate nel terzo trimestre del 2020 hanno registrato una caduta di solo il 5% rispetto allo stesso periodo del 2019. Ma nello stesso periodo il commercio di servizi era ancora del 24% inferiore a quello di un anno prima, una quota che si è poi ridotta a un sempre elevato 16% in novembre. Con un crollo di quasi il 70% nei viaggi e del 24% nei trasporti (dati della Wto). Dietro a questi numeri, in grande misura influenzati dalla crisi da pandemia, c’è una realtà in deterioramento che va dallo stato di semiparalisi dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) alle alleanze regionali di libero scambio che sono sempre più mosse dalla geopolitica, e quindi divisive, anziché da una logica multilaterale.
Già prima dell’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, la Wto aveva perso di fatto il suo ruolo di forum in cui si negoziano le liberalizzazioni degli scambi. Con la scorsa amministrazione americana è successo che Washington ha anche bloccato il secondo pilastro su cui si fonda l’Organizzazione, il panel d’appello che giudica le dispute commerciali tra Paesi. Trump ha impedito la nomina di nuovi giudici nel panel, il quale di conseguenza non è tuttora in grado di giudicare.
Molte delle irritazioni americane verso la Wto, alcune condivise dal nuovo team di Joe Biden e dalla stessa Unione europea, non sono campate per aria. L’istituzione è una creatura degli Anni Novanta e succede al Gatt, il Trattato che ha aperto i mercati dal dopoguerra.
Ma nel 2001 vi è entrata la Cina, la quale con le politiche di sostegno statale alle sue imprese, la discriminazione verso le aziende estere, l’uso non infrequente di politiche di dumping, l’appropriazione di tecnologia ha creato problemi nuovi che la Wto non è preparata ad affrontare. L’amministrazione Biden si trova questa eredità e nei prossimi mesi si impegnerà probabilmente per concordare con una serie di Paesi un confronto su come riformarla. L’ordine esecutivo del nuovo presidente che istituisce una politica di Buy American non fa però pensare a una spinta di Washington verso un protezionismo commerciale molto minore di quello perseguito da Trump. I democratici Usa, d’altra parte, in ragione della loro vicinanza ai sindacati, sono in genere meno favorevoli al libero commercio dei repubblicani.