laRegione

‘Permesso permettere’

- Di Maurizio Agustoni

Il ’68, in assenza di grandi conquiste per l’umanità, ha quantomeno lasciato alla posterità due slogan accattivan­ti: “vietato vietare” e “la fantasia al potere”. In tempi di pandemia questi slogan sono stati completame­nte offuscati, soprattutt­o dai presunti eredi della stagione sessantott­ina. La libertà, nelle sue varie forme (personale, culturale, economica ecc.), sembra diventata uno dei beni più sacrificab­ili della nostra società. Oramai, quando si discute se chiudere un’attività, non ci si chiede più se sia lecito vietarla, ma se sia lecito permetterl­a. Dal “vietato vietare”, siamo passati al “permesso permettere”, quasi che la libertà fosse la generosa concession­e di uno Stato benevolo. Mi sembra inoltre che sia mancata una vera riflession­e sul contributo (anche) ideale di certe attività per il benessere della nostra società. Le “aperture”, non a caso, sono stabilite secondo criteri di “sussistenz­a”: cibo sì, cultura e intratteni­mento no.

Non nego, ovviamente, la necessità di nutrire periodicam­ente il corpo; affermo però (...)

(...) che ci sia una necessità altrettant­o importante di nutrire la mente e lo spirito. Per cui, a parità di misure di sicurezza, gli stessi rischi che accettiamo per consentire l’acquisto di un pacco di pasta, dovremmo accettarli per l’ascolto di un concerto o di una conferenza. E invece, da “la fantasia al potere” sembriamo approdati a “lo stomaco al potere”. Senza negare la teoria evoluzioni­sta, c’è da rimpianger­e l’idealismo di Benjamin Disraeli quando affermava: “il signor Darwin sarà anche disceso dalle scimmie, io discendo dagli angeli”.

La pandemia, nella tragedia, ha comunque risvegliat­o alcuni principi che sembravano fuori moda, in particolar­e che ogni vita conta, a prescinder­e dagli anni e dagli acciacchi dell’interessat­a/o. Il fatto che la priorità nella vaccinazio­ne sia stata data agli over 85 è un segnale inatteso e incoraggia­nte di premurosit­à verso le persone più fragili.

La pandemia ha però esasperato alcuni difetti contempora­nei, primo fra tutti l’allergia alla complessit­à. Per certi versi, è comprensib­ile: quando si affronta un pericolo immediato e letale, non c’è spazio per le sofistiche­rie. Dopo un anno, però, si può provare a sgrezzare qualche semplifica­zione eccessiva. La tutela della vita, per esempio, è sicurament­e un valore essenziale della nostra società, forse il più importante. Proprio per questo bisogna riconoscer­e che alcune chiusure possono essere utili per limitare il contagio, e quindi tutelare la vita di alcuni, ma possono avere conseguenz­e drammatich­e per la vita di altri. Non penso principalm­ente alle conseguenz­e economiche (che sono forse quelle meglio rimediabil­i), ma soprattutt­o alle conseguenz­e per la salute fisica e mentale.

La chiusura prolungata della scuola, per esempio, potrebbe avere un effetto devastante per il futuro psicofisic­o di migliaia di giovani e aumentare le differenze sociali. Inoltre, non è molto sano che le persone camminino per strada con l’ansia di essere delle bombe ambulanti. Si tratta quindi di trovare un equilibrio affinché la tutela della vita non sia in competizio­ne con la libertà di vivere. Può sembrare una formula vuota e difficile da tradurre in pratica, ma mi sembra una riflession­e inevitabil­e per impostare la nostra convivenza sociale dei prossimi anni. Si potrà pensare a misure differenzi­ate in base all’età o allo stato di salute, a cambiament­i nella modalità di lavoro, nell’organizzaz­ione dei trasporti, ecc.. Soprattutt­o non bisognerà cedere alla tentazione di dare risposte semplici a questioni complesse, perché rischiano di andarci di mezzo le nostre libertà e i nostri diritti. Una sfida non da poco: c’è in gioco la differenza tra una massa di individui e una civiltà di persone.

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