Dopo il muro, la porta?
Torpedoni dal Messico
“Abbiamo bisogno di questi immigrati”, afferma convinto il signor Pender Sharp. La sua famiglia coltiva tabacco da quattro generazioni. Senza gli “stagionali” lui non riuscirebbe a gestire i suoi 4’000 ettari di terreno a mezz’ora d’auto dalla capitale Raleigh.
Questo è un singolare pellegrinaggio dal Messico. Andata e ritorno. Una transumanza periodica di manodopera. Prima del Covid, erano loro i “lavoratori essenziali” per l’economia. Davanti alla sede di un’associazione di imprenditori agricoli avevo visto una decina di torpedoni parcheggiati. Ne erano scesi lavoratori con le valigie. Al loro arrivo su questo piazzale in fondo a una strada di campagna, gli addetti della “North Carolina Growers Association” che parlano in spagnolo e compilano i loro documenti. Poi via, verso la destinazione finale: le fattorie che da queste parti raccolgono fragole, patate dolci, alberi di Natale e foglie di tabacco, come nell’azienda del signor Sharp. Dove un tempo – spiega – erano tutti americani. Adesso quasi tutti immigrati. Molti di loro sono pendolari dal Messico da un sacco di tempo. Come Ruben Toledo. È il suo 26esimo anno. Più di mezza vita già trascorsa qui in America. In un’ora guadagna 12,25 dollari. Quasi quanto una giornata di lavoro nel suo paese. E più di molti dipendenti di McDonald’s da questa parte del confine.
Tra ordini e riforme
“Questi sono i miei ragazzi”. Bill se li abbraccia. Li tiene stretti. Non si vedevano da qualche mese. I “suoi ragazzi” sono due fratelli messicani sulla quarantina, occhiaie di stanchezza a orlare lo sguardo assonnato per il lungo viaggio in autobus. “Mi raccomando, prenda nota: io ho votato per Trump”, mi ha detto Bill all’inizio dell’anno scorso allargando il sorriso e chiudendo la portiera del pick-up. A bordo, con lui, questi due lavoratori stagionali. A tempo determinato: 7-8 mesi all’anno in Usa, il resto a casa loro. La retorica del “ci rubano il posto di lavoro” sbriciolata con un colpo di portiera. Qui in North Carolina, il film dell’immigrazione mostra le scene mai incastonate nella narrativa anti-straniero trasmessa dalla precedente amministrazione. I messicani arrivano su normali pullman, attraversano legalmente la frontiera, non scavalcano nessun muro, hanno vitto-alloggio-impiego col minimo salariale, documenti in regola. E sono benvoluti dai loro datori di lavoro.
Di immigrati stagionali si è parlato poco negli ultimi anni. Una manovalanza operosa e silenziosa. La precedente amministrazione ha sempre calcato l’attenzione sugli altri. Quelli “pericolosi”. Da un lato ha tenuto aperte le porte agli immigrati indispensabili all’economia. Senza tanta pubblicità. Dall’altro l’ha sbattuta in faccia a chi bussava in cerca di lavoro e di una vita migliore. Porta chiusa davanti al Muro mai pagato dal Messico. Tolleranza zero, l’avevano chiamata i geometri delle politiche anti-immigrazione di Trump. Ora Joe Biden promette di riaprire quelle porte. Nello tsunami di ordini esecutivi firmati nei primi dieci giorni da presidente, non certo la forma più elevata di compromesso politico, ha incluso l’immigrazione. “Sto eliminando politiche pessime”, ha dichiarato firmando i suoi provvedimenti alla Casa Bianca. A partire dall’orrenda pratica della separazione delle famiglie (“vergognosa”, secondo lo stesso Biden). Circa 5mila persone separate in totale. Con forse 800 minori ancora da ricongiungere ai propri cari. La nuova amministrazione assicura che lo farà. Ma colui che oggi siede nello Studio Ovale, per 8 anni è stato il vice di Obama, che ha deportato più immigrati di Trump dal punto di vista numerico (il “record” è di Clinton seguito da George W. Bush). Con criteri diversi, però. Venivano rinviati in patria soprattutto gli autori di reati gravi. E comunque senza strappare, letteralmente, i minori dalle braccia delle madri. O strappare le mamme alle famiglie, costringendole a rifugiarsi in una chiesa. Come Rosa Gutierrez Lopez, tre figli dei quali uno disabile, destinataria di un ordine di deportazione in Salvador dopo aver vissuto 14 anni negli Stati Uniti. La incontrai in una chiesa battista alla periferia di Washington. A poche miglia dalla Casa Bianca.
Al di là della barriera
Dal Salvador arrivava anche un’altra mamma. “Nel mio paese ti ammazzano il figlio se rifiuti di farlo reclutare dalle marras”, le bande criminali giovanili. “Il mio ha 11 anni. Ho detto no, e siamo scappati”. Me lo ha raccontato seduta su un materasso, la figlia più piccola sdraiata lì accanto. Tra decine di altre persone inchiodate in questo limbo d’oltrefrontiera. A Ciudad Juárez, in Messico, appena al di là della barriera. Biden ne ha già ordinato la sospensione. Stop ai lavori. E stop all’obbligo di presentare richiesta di asilo all’esterno degli States. Negli ultimi tre anni l’attesa per l’ingresso è stata estenuante, prima che il Covid la rendesse comunque quasi impossibile. Con la pandemia le frontiere sono parzialmente sigillate ovunque. Ma prima c’era stata l’epidemia della paura dell’altro: iniettata in grandi dosi, propagata via social media per mostrare “un’invasione” e proclamare lo Stato d’emergenza. Ora la Casa Bianca l’ha revocato. Ma intanto lungo la frontiera meridionale degli Stati Uniti migliaia di immigrati senza documenti sono in attesa al confine. Ne avevo incontrati a decine – compresa la mamma del Salvador - al “Buen Samaritano”, un centro di accoglienza della chiesa metodista in un quartieraccio di Ciudad Juárez, una delle città tuttora più violente del Messico. Dall’altra parte del fiume Rio Grande c’è El Paso, in Texas. Di qui decine di migliaia di richiedenti asilo che aspettano. Una sala d’attesa per un viaggio che, forse, ora potrebbe riprendere.
Gli sposi del ponte
Uno dei paradossi di come ci hanno raccontato l’immigrazione in questi anni è che quel confine non è affatto invalicabile. Lo varca ogni anno una moltitudine infinita di auto e pedoni. Sette milioni di persone l’hanno attraversato a piedi nel 2019. Alla dogana internazionale del ponte “Paso del Norte”, in tempi preCovid, transitavano da 15 a 20mila persone al giorno. Da un lato Ciudad Juárez. Dall’altro El Paso. In mezzo Miriam, 18 anni, e Raul, 28. Sono passato di lì proprio mentre pronunciavano il loro “sì” nella terra di nessuno, sospesa sulle arcate del ponte e imbrigliata sotto le reti metalliche. Lei non aveva i documenti in regola e non poteva entrare in Usa. Il giudice Carlos Carrasco venne appositamente dal Texas per celebrare quelle nozze a cavallo della “frontera”. Né muri, né confini. L’amore non ha bisogno di passaporto.