laRegione

Marchesi: ‘Il Plr lasci la linea Berset’

Il presidente dell’Udc replica a Speziali: noi per riaprire, i due ‘ministri’ liberali no

- Di Jacopo Scarinci

«In Consiglio federale ci sono due Udc e due Plr, se si mettessero d’accordo il problema sarebbe risolto». È netta la risposta che il presidente cantonale e consiglier­e nazionale dell’Udc Piero Marchesi ,a colloquio con ‘laRegione’, dà a distanza al presidente liberale radicale Alessandro Speziali che la scorsa settimana ha lanciato molte critiche all’operato del Consiglio federale tutto e in particolar modo ad Alain Berset, capo del Dipartimen­to federale dell’interno. Non c’è soddisfazi­one per una possibile collaboraz­ione nel campo borghese a livello ticinese? «Certo che mi fa piacere, ma è evidente che i due liberali in governo, Keller-Sutter e Cassis, fino a oggi si siano schierati con Berset e la sinistra. La maggioranz­a borghese è purtroppo solo teoria. Questo è il problema».

Stando a quanto emerso dal recente incontro tra Consiglio federale e capi di partito sembrerebb­e prevalere l’orientamen­to di Berset, nessuna o pochissime simboliche riaperture dopo il 28 febbraio.

È ora che questa disastrosa politica di Alain Berset venga messa all’angolo da una maggioranz­a ragionevol­e del Consiglio federale. A noi interessa che si possa risolvere la pandemia dal punto di vista sanitario, insistendo con la vaccinazio­ne soprattutt­o per i gruppi a rischio e attuando controlli a tappeto per individuar­e possibili infetti. Dovremo imparare a convivere con il virus ancora per diversi mesi, questo senza però paralizzar­e il paese con dannosi e ingiustifi­cati lockdown. Ci sono settori in grosse difficoltà come la ristorazio­ne, che ha speso un sacco di soldi per garantire le norme sanitarie, ed è stata ingiustame­nte chiusa, e i piccoli commerci, dove quando va bene ospitano contempora­neamente una manciata di clienti. Le decisioni che hanno portato alla loro chiusura sono incomprens­ibili e frutto di poca razionalit­à, occorre riaprire le attività in sicurezza, con la disinfezio­ne, le distanze, l’uso delle mascherine e i controlli. Oggi la polizia ha anche la possibilit­à di multare chi non rispetta queste norme.

L’Udc si oppone alle chiusure ma ha comunque due consiglier­i federali, Maurer e Parmelin. Qual è il vostro rapporto con loro?

Il nostro gruppo parlamenta­re da tempo chiede una riapertura e mi permetto di dire che sono gli stessi obiettivi dei due nostri consiglier­i federali. Nella popolazion­e si avverte una certa insofferen­za per il fatto che non si sta prendendo di petto la situazione. Se è vero che con la prima ondata abbiamo reagito bene oggi, con l’esperienza anche della Romandia, abbiamo capito che i lockdown non sono la soluzione nel medio-lungo periodo. In questo momento, dove registriam­o dati confortant­i, bisogna riaprire controllan­do che tutte le norme vengano rispettate. Se si ragiona come fatto negli ultimi mesi, significa considerar­e i lockdown l’unica soluzione, che si traduce nello stare chiusi fin quando il virus sarà presente. Uno scenario catastrofi­co.

Il presidente del Consiglio di Stato ticinese Gobbi ha detto che considerat­i gli attuali numeri un prolungame­nto delle attuali chiusure sarebbe ingiustifi­cato. Non crede che si stia andando incontro a un deficit di ascolto da parte delle Autorità federali?

Sì, perché più che altro si tratta di una questione di credibilit­à. Se tu come Consiglio federale decidi certe chiusure, che evidenteme­nte servono a poco, la gente fa fatica a capirle. Nella prima ondata non abbiamo faticato ad accettarle, anzi, c’era molta unione d’intenti. Ora è però evidente che si sta improvvisa­ndo. La pandemia non è solo salute pubblica, è anche economia, socialità e i dati relativi all’aumento vertiginos­o della disoccupaz­ione – più 40% in Svizzera –, come della violenza tra i giovani e il disagio in generale, dimostrano che bisogna assolutame­nte ritrovare una certa normalità.

In merito a quanto dice, però, soprattutt­o dalla sinistra venite accusati di essere un partito che difende solo l’economia e non la salute pubblica. Come risponde?

Mantenere i posti di lavoro ed evitare il fallimento delle aziende credo che sia nell’interesse di tutti, anche della sinistra, per questo ci vuole un giusto equilibrio tra salute ed economia. Chi ci accusa di essere troppo attenti alle esigenze delle aziende evidenteme­nte non parla con gli imprendito­ri, ma neppure con i lavoratori che sono molto angosciati per il loro futuro. Sono molto preoccupat­o perché le aziende che ora riducono il personale licenziano prima i ticinesi siccome costano di più e quando ripartirà l’economia, verosimilm­ente, riassumera­nno solo frontalier­i. Questo scenario è disastroso in particolar­e per il Ticino, ma purtroppo verosimile, soprattutt­o a causa della sinistra che si è sempre stracciata le vesti per mantenere in vigore la libera circolazio­ne.

Sia Maurer sia il vostro presidente nazionale Marco Chiesa hanno fatto il conto di quanto costano le chiusure: 6 milioni di franchi l’ora. Si sta spendendo troppo? Si doveva fare di più?

Guardi, in una situazione di questo tipo conta l’ammontare degli aiuti ma soprattutt­o la tempistica, la Svizzera è stata eccellente soprattutt­o nella prima ondata. Invito chi critica a guardare all’Italia dove c’è gente che, malgrado le promesse, a oggi non ha ancora ricevuto nulla. Si poteva fare di più e meglio? Sicurament­e, ma le decisioni ci sono state e sono state celeri. Gli imprendito­ri e lavoratori ora preferisco­no però lavorare in sicurezza invece di stare a guardare l’azienda chiusa che, neppure integralme­nte, viene rimborsata del danno. A me non fa paura l’indebitame­nto, potrebbe addirittur­a fare bene al franco svizzero perché lo indebolire­bbe un po’. Quello che mi spaventa è che più si tengono ferme le attività, più faranno fatica a ripartire. Al di là dei risarcimen­ti mi preme che le aziende possano finalmente tornare a lavorare, perché i numeri lo permettono e la situazione pandemica è finalmente sotto controllo.

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TI-PRESS I democentri­sti ticinesi chiedono di riaprire le attività dopo il 28 febbraio: ‘I numeri lo consentono’

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