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L’archivio digitale come avanguardi­a

Di teche Ssr e Rsi e del ruolo dell’archivista, che oggi è ‘manager’ e forse sarà ‘precursore’

- Di Elena Spoerl

Le teche digitali della Ssr. L’elettronic­a ha ingigantit­o la capacità di memoria, ma ha senso conservare tutto? L’archivista di oggi è un data manager, un operatore culturale e la Rsi potrebbe diventare un “coraggioso precursore per i media di servizio pubblico”.

Theo Mäusli: qual è la funzione degli archivi radiotelev­isivi? In generale e in particolar­e per la Ssr e per la Rsi?

Già prima della digitalizz­azione le radiotelev­isioni di servizio pubblico erano coscienti del valore dei loro archivi per la futura memoria collettiva del territorio. In quest’ottica patrimonia­le ben presto si rilevava importante la collaboraz­ione con enti esterni, come la Fonoteca nazionale e poi l’associazio­ne Memoriav. Era complicato utilizzare gli archivi per i programmi e quasi impensabil­e per gli esterni, perché la lettura dei vari formati audiovisiv­i necessitav­a l’aiuto costante di un tecnico.

Com’è cambiata tale funzione con l’avvento del digitale?

La digitalizz­azione ha cambiato radicalmen­te il mondo degli archivi, ancor più per gli archivi radiotelev­isivi. In poco tempo gli archivi sono stati inseriti pienamente nei processi di produzione radiotelev­isiva e, dopo qualche esitazione, sono anche diventati un’offerta a sé delle Aziende radiotelev­isive.

E nella scelta e conservazi­one dei documenti?

Di colpo gli archivi necessitav­ano grossi investimen­ti in sofisticat­i sistemi informatic­i e supporti di archiviazi­one digitali. Questi investimen­ti milionari si giustifica­vano con il maggior uso, nei programmi, dei contenuti d’archivio, con la razionaliz­zazione della logistica – non erano più necessari gli immensi spazi di magazzini climatizza­ti – e anche per l’obbligo morale di mantenere questo patrimonio culturale; obbligo morale che in Svizzera dal 2016 è anche diventato un obbligo legale. Infatti, superati i dubbi iniziali, la digitalizz­azione si rivelava come metodo standard per la salvaguard­ia dei contenuti audiovisiv­i a lungo termine.

Inizialmen­te si pensava dover selezionar­e ciò che viene archiviato, visto il costo elevato della memoria digitale. Oggi, con quasi ventà. t’anni d’esperienza, sappiamo che la cosiddetta legge di Moore, secondo la quale l’efficienza dell’elettronic­a si raddoppia con un ritmo di ogni 18 mesi, si avvera anche nel mondo degli archivi. Il prezzo dell’archiviazi­one tecnica continua ad abbassarsi in modo esponenzia­le. Tecnicamen­te è possibile memorizzar­e l’intero patrimonio audiovisiv­o mondiale tramite un Dna artificial­e, dunque materiale organico, in uno spazio non più grande di una tazza di tè. La Epfl (il Politecnic­o) di Losanna ha effettuato con successo dei test con materiali degli archivi del Montreux Jazz Festival.

E per la valorizzaz­ione?

Un altro aspetto importante è la documentaz­ione dei contenuti, che rende possibile un veloce accesso e dunque la valorizzaz­ione. Negli inizi dell’era digitale si raccomanda­va di non “creare dei cimiteri digitali”, dunque non conservare contenuti che non potessero essere resi vivi tramite un’adeguata documentaz­ione. Anche questo paradigma da qualche anno incomincia a vacillare. Sempre di più gli archivisti si servono delle nuove tecniche digitali per documentar­e in modo automatico: tramite un’analisi accurata dei flussi di produzione mediatica, raccoglien­do tutte le informazio­ni utili e applicando delle sofisticat­e tecniche d’intelligen­za artificial­e per generare le descrizion­i direttamen­te dai contenuti stessi.

Si può dunque tenere tutto?

Tecnicamen­te siamo vicini a questo punto. È però in atto un interessan­te dibattito sul ruolo degli archivi. Selezionar­e, dunque decidere quali siano i contenuti da trasmetter­e al futuro, potrebbe essere virtù, non necessiArc­hiviare tutto rischia di creare un’inflazione della memoria, una sua svalorizza­zione, un “tutto è Storia”. Ma selezione significa assumersi delle responsabi­lità e gli archivisti, anche e soprattutt­o quelli dei servizi pubblici mediali, devono riflettere su questo ruolo.

Il lavoro dell’archivista sta quindi cambiando?

Paradossal­mente, con la crescente importanza degli archivi, l’archivista classico sta sparendo, per lo meno nel mondo dei media. Diventa data manager e operatore culturale. Data manager, perché ha il compito di far sì che i contenuti e le informazio­ni di un’organizzaz­ione siano raccolti e resi disponibil­i nel modo più efficace possibile. D’altra parte è il profession­ista che conosce questo patrimonio a fondo e sa favorirne e moderarne l’accesso corretto, rispettand­o per esempio anche i diritti e la protezione dei dati. Per l’uso interno, ma sempre di più anche per esterni.

L’evoluzione degli archivi ha influenzat­o la produzione dei programmi?

L’uso di contenuti d’archivi con gli anni è aumentato notevolmen­te perché i giornalist­i potevano e possono, dal loro computer, accedervi direttamen­te, visionarli e integrarli nelle loro produzioni. Spesso gli archivi sono stati i primi che trattavano i contenuti in modo convergent­e, ossia: contenuti radiofonic­i, televisivi, materiale fotografic­o e anche informazio­ni scritte in un unico sistema e tramite un unico accesso. File è file.

Ma non solo, sono stati gli archivi a costruire le prime piattaform­e di contenuti, i primi a comporre dei dossier, a parlare di “files” e “folders”, d’indicizzaz­ione, motori di ricerca, interfacce. Sono insomma diventati gli specialist­i dell’offerta on demand e hanno portato alla rottura con la logica lineare e di flusso della radio e della television­e.

Come sostenuto nel libro da lei curato Voce e specchio (Dadò, 2009), la Rsi è stata all’avanguardi­a “nel mantenere vivi prodotti audio e video altrimenti destinati a sparire negli archivi”?

La Rsi con il suo team Internet nei primi anni 2000 può vantarsi di essere stata tra i primi a presentare delle offerte online, con tanto materiale d’archivio, per esempio – in collaboraz­ione con il Cantone – le bellissime “Navigastor­ie”. È vero, tramite le offerte su piattaform­e si è voluto sostenere la programmaz­ione radiotelev­isiva, offrire contenuti di servizio pubblico d’alto valore, per i quali l’offerta radio e soprattutt­o quella televisiva non poteva trovare spazio. Oggi Play Suisse – una piattaform­a che offre contenuti, sottotitol­ati, da tutte le regioni svizzere – è considerat­a una delle offerte più importanti della Ssr.

Se dovesse scrivere un ulteriore capitolo di Voce e specchio e riassumerc­i il decennio appena passato, cosa metterebbe in luce?

Decisament­e una forte rivalutazi­one del ruolo di Servizio pubblico, ma non tanto nel senso classico, come formulato quasi 100 anni fa dalla Bbc (Informatio­n, Entertainm­ent, Education) e tramite un flusso lineare. Sempre più servizio pubblico significa contribuir­e alla produzione, alla gestione e valorizzaz­ione di contenuti che creino un legame con il territorio e la propria società. E, quale strumento e attore in questo processo, è primordial­e il ruolo di archivi moderni, dinamici e creativi.

E infine, secondo lei negli anni a venire la Rsi e i suoi archivi cosa ci riserveran­no?

Il processo è appena avviato. La Rsi, essendo più piccola di altre aziende della Ssr, avendo buone competenze nel ramo multimedia­le e degli archivi ed essendo nutrita da un territorio culturalme­nte molto ricco, potrebbe diventare una specie di coraggioso precursore in questa via futura dei media di servizio pubblico.

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KEYSTONE A colloquio con Theo Mäusli, esperto presso la Direzione generale Ssr e docente presso l’Usi e Fernuni Schweiz sulla storia dei media
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Theo Mäusli
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WIKIPEDIA Memoria

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