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‘Quella frase di Cassis non è stata facile da digerire’

Pierre Krähenbühl racconta la sua verità sulla vicenda sfociata nelle sue dimissioni

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi (rsi.ch/podcast),

È stato fino al 6 novembre 2019 il rappresent­ante elvetico di più alto rango a livello mondiale. Quel giorno Pierre Krähenbühl, capo dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa degli oltre 5 milioni di rifugiati palestines­i, getta la spugna e si dimette. La pressione era diventata insostenib­ile e lui si era sentito abbandonat­o da Berna. Un pre-rapporto consegnato al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres un anno prima, e del quale alcune fughe di notizie rivelavano i contorni, lo accusava di malversazi­oni, favoritism­i, sperpero di denaro. Accuse gravi a tal punto che anche il Dipartimen­to federale degli affari esteri (Dfae) di Ignazio Cassis decise di sospendere i finanziame­nti all’Unrwa. Precedente­mente a chiudere i rubinetti fu l’amministra­zione americana, con in prima fila il genero di Donald Trump, Jared Kushner, per il quale la stessa Unrwa costituiva non la soluzione ma il problema. Un concetto analogo fu espresso da Ignazio Cassis in un suo controvers­o viaggio ad Amman, sollevando dubbi sulla neutralità svizzera e polemiche da parte di chi lo considerav­a troppo vicino alle posizioni del governo Netanyahu e dell’amministra­zione Trump. Sta di fatto che il rapporto d’inchiesta definitivo consegnato al Segretario generale delle Nazioni Unite lo scagiona dalle accuse più gravi, ritenendo contro di lui, stando alle rivelazion­i di un’inchiesta della Rts, solo sospetti marginali. In un’intervista esclusiva alla trasmissio­ne ‘Laser’ di Rete Due della Rsi

Pierre Krähenbühl si confida, chiede giustizia, e racconta la sua verità in una vicenda dolorosa e dai contorni alquanto opachi.

Oltre un anno fa lei ha rassegnato le dimissioni da uno dei posti più importanti delle Nazioni Unite, in un clima di polemiche e amarezza. È riuscito a voltare pagina?

Da una parte c’è sempre il desidero di chiariment­i dopo avveniment­i così intensi, dopo anni di lavoro svolto con passione all’Unrwa e con il quale ancora oggi ho un rapporto carico di emozioni. È stata per me una delle più belle esperienze in assoluto, in particolar­e nel campo dell’educazione. 500mila allievi in 700 scuole, da Aleppo nel nord della Siria fino a Gaza. Al tempo stesso devo guardare avanti, non ci si può lasciar definire solo da un avveniment­o, seppur forte, che mi ha portato a rassegnare le dimissioni. Bisogna saper voltare pagina.

In piena bufera sulle sue presunte malversazi­oni, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres le ha proposto di prendere un congedo amministra­tivo, ma lei ha rifiutato e gettato la spugna. Perché?

Perché eravamo nel contesto di un’inchiesta che andava avanti da parecchio tempo. Il Segretario generale mi ha confermato che le accuse di malversazi­oni, frode, corruzione, di cattiva gestione dei fondi dei donatori, oltre alla vicenda della presunta relazione sentimenta­le e del relativo conflitto d’interessi, erano state scartate e cadute nel vuoto. Rimanevano da chiarire solo un paio di questioni legate a delle assunzioni. Proprio nel momento in cui le accuse cadono nel vuoto e che rimane da chiarire un 2% ti viene chiesto di farti da parte per un congedo amministra­tivo. La cosa mi sembrava poco coerente e d’altro canto desideravo riprenderm­i un po’ di libertà di parola. Ho voluto creare uno choc psicologic­o, ed è quanto successo.

Il rapporto definitivo che la scagiona dalle principali accuse è stato consegnato a Berna ed è rimasto apparentem­ente in un cassetto. Perché secondo lei?

Da quanto ne so, la posizione del Dfae è che siccome si tratta di una procedura avviata dall’Onu, sta alle Nazione Unite concluderl­a. Formalment­e non lo contesto. Oggi mi aspetto che sia in primis New York a chiudere la procedura, che l’Onu affermi che le accuse mosse nei miei confronti non hanno trovato alcun riscontro. Sarebbe certamente positivo se la Svizzera appoggiass­e questa procedura, una cosa del tutto fattibile. Va bene che il mio paese dica “non sta a noi trarre le conclusion­i dal rapporto”, ma potrebbe comunque chiedere all’Onu di farlo. Sarebbe nell’interesse di tutti.

E perché l’Onu non lo fa, secondo lei?

La posizione delle Nazioni Unite è stata quella di dire che siccome avevo rassegnato le dimissioni, si sospendeva la procedura. Ma credo che, consideran­do i contenuti del rapporto, sarebbe anche nel loro interesse giungere alle conclusion­i e pubblicarl­e.

Perché secondo lei la Svizzera, il suo paese, è stata la prima o tra i primi a sospendere i finanziame­nti all’Unrwa quando le sono state mosse le prime accuse? Si è sentito tradito, pugnalato alla schiena?

Vede, è stato deludente vedere il tuo proprio paese essere il primo ad adottare una tale misura. Uno può aspettarsi sostegno in un momento così, o perlomeno un atteggiame­nto a difesa della presunzion­e d’innocenza. La Svizzera mi aveva sempre enormement­e sostenuto e aveva sostenuto l’Unrwa fino al cambiament­o di politica che si è prodotto con l’arrivo al Dfae di un nuovo consiglier­e federale. È vero che la Svizzera aveva sospeso solo una parte del finanziame­nto, due milioni, ma è stata la prima a farlo; ed è stato un segnale che mi è spiaciuto molto. Posso benissimo capire che il tipo di accuse che mi erano state mosse potesse porre degli interrogat­ivi sul mio agire. Ma nel diritto c’è un principio cardine che è la presunzion­e d’innocenza. Con le misure prese da Berna, si è data l’impression­e che questo principio non fosse stato applicato e che si pregiudica­va il risultato dell’inchiesta. Per me è stata estremamen­te dura, e sul perché la Svizzera ha agito così, beh, su questo dovrebbe esprimersi il Dfae.

Nel maggio del 2018, prima della bufera, lei aveva incontrato Ignazio Cassis ad Amman. Qualche ora dopo, il consiglier­e federale fece una dichiarazi­one sul fatto che l’Unrwa poteva far parte del problema e non della soluzione, che suscitò discussion­i e polemiche. Una dichiarazi­one simile era uscita precedente­mente dalla bocca di Jared Kushner, genero del presidente americano e suo rappresent­ante per il Medio Oriente…

Si sapeva che il consiglier­e federale arrivava con un’idea un po’ diversa rispetto ai suoi predecesso­ri sul conflitto tra Israele e Palestina. Il che è normale: ci sono ovunque ministri più vicini a Israele o più vicini ai palestines­i. La visita si è svolta bene. La sorpresa è stata al ritorno da Amman, quando si è posta la questione se l’Unrwa piuttosto che della soluzione, non facesse in realtà parte del problema. E in effetti è la stessa formulazio­ne che sei mesi prima aveva utilizzato Jared Kushner in un colloquio alla Casa Bianca.

Come dire che Cassis aveva posizioni analoghe all’amministra­zione Trump e di riflesso al governo Netanyahu…

Questa è la percezione che si è diffusa. Guardi, io con Cassis non ne ho mai fatto una questione personale. Il meglio sarebbe trovarsi, andare a bere un caffè assieme. Dalle mie dimissioni non ci siamo mai sentiti. Quando Ignazio Cassis aveva pronunciat­o quella frase, nel maggio del 2018, eravamo proprio nel cuore della nostra strategia di colmare i tagli enormi degli americani, 367 milioni di dollari. Eravamo tutti concentrat­i nel tentare di mobilitare il numero maggiore di persone attorno all’Unrwa. E quella frase per noi non è stata naturalmen­te facile da digerire. Detto questo, vorrei sottolinea­re che dopo la Svizzera ha mantenuto i suoi impegni finanziari ed è stata anche tra i 43 paesi che hanno poi aumentato il loro contributo, consentend­oci di farcela in quell’anno.

Al centro degli attacchi c’erano da una parte l’Unrwa e dall’altra lei. In questo caso era un attacco alla sua persona anche dall’interno dell’Organizzaz­ione...

È normale quando si dirige un’organizzaz­ione di quelle dimensioni che i donatori si pongano delle domande sul modo in cui l’organizzaz­ione è gestita. E nel caso dell’Unrwa che esiste da 70 anni, 70 anni perché non c’è stata una soluzione politica, hanno particolar­i esigenze. In 5 anni la squadra che dirigevo aveva ridotto i costi struttural­i di 490 milioni di dollari. Un piano di risparmio estremamen­te ambizioso che dimostra quanto sul serio abbiamo considerat­o le richieste. Ma se tagli 490 milioni, quando nel 2018 devi ridurre il budget di altri 92 milioni a causa del debito, è ovvio che crei delle tensioni: programmi che vengono tagliati, colleghi che perdono il posto di lavoro.

Ma lei non ha nulla da rimprovera­rsi?

Il fatto per esempio che ha lavorato sempre fianco a fianco con la sua consiglier­a Maria Mohammedi? Certo la relazione sentimenta­le è stata smentita dall’inchiesta, però questo legame profession­ale costante ha potuto creare divisioni e tensioni, non crede?

Quando all’inizio dell’anno 2018 devi far fronte a un deficit e a tagli da parte degli americani, in tutto 538 milioni di deficit su un bilancio annuale di 1 miliardo 200 milioni, nessuno pensa veramente che l’organizzaz­ione ce la farà a sopravvive­re. E l’intenzione americana era proprio quella di non farci sopravvive­re. In un momento così cosa fai? Centralizz­i le decisioni perché non puoi andare da ognuno a chiedere se è d’accordo con i tagli nel suo settore. Dovevo prendere delle decisioni difficili ed era possibile farlo solo in un gruppo ristretto. Il mio rimpianto non è tanto legato al fatto che una decina di collaborat­ori internazio­nali hanno contestato le mie decisioni, anche se alcune – come l’assunzione del marito della mia vice Sandra Mitchell – potevano in effetti essere considerat­e inopportun­e, anche se non violavano nessuna regola, in questo caso ho dunque sbagliato. Il mio rimpianto più profondo è di non essere riuscito a salvare tutti i posti di lavoro dei palestines­i. Ne abbiamo salvati il 98%. Ma in Palestina quando perdi un lavoro, non ne trovi un altro. Una realtà crudele. A Gaza i 118 che hanno perso il lavoro sono nella disperazio­ne, è un dolore che continua. Sa, quando si è a capo di 30mila dipendenti, errori di gestione se ne fanno. Ma corruzione, frode, cattiva gestione dei fondi dei donatori sono accuse che non ho mai accettato e l’inchiesta ci ha dato ragione.

Nel maggio del 2019 Cassis incontra il ministro degli esteri israeliano Israel Katz. Secondo quest’ultimo il consiglier­e federale si è dimostrato molto sensibile alla posizione del governo israeliano sull’Unrwa, che Israele di fatto vorrebbe sopprimere. Secondo lei la posizione assunta da Cassis rimette in discussion­e la nostra neutralità?

Diciamo che in Medio Oriente la domanda mi è stata posta proprio in questi termini: “non riconoscia­mo più il modo con il quale il suo paese operava in questo contesto”. All’indomani della frase di Ignazio Cassis, il Consiglio federale ha corretto il tiro dicendo che la politica della Confederaz­ione non era cambiata. E neanche l’appoggio all’Unrwa, come poi confermato dai fatti. Ho dunque segnalato nella regione che la posizione della Svizzera, nei suoi fondamenti, non era mutata. Ma la percezione in Medio Oriente era proprio quella a cui lei si è riferito nella sua domanda.

Lei ha chiarament­e la sensazione di essere stato abbandonat­o dal suo ministro di riferiment­o, il capo del Dfae? È stata dura?

Sì, è stata dura. Perché mi ero impegnato con molta passione e determinaz­ione su un dossier tanto difficile. Il fatto che il tuo stesso ministro si esprima in quei termini sull’organizzaz­ione che dirigi, in quel momento e con quelle modalità, è stato molto difficile da vivere. È ovvio che lo si percepisca come la mancanza di sostegno da parte del tuo stesso paese. Però ci tengo a ricordare che fino a quel momento il sostegno che mi ha garantito la Svizzera è stato notevole.

Ma è stato abbandonat­o anche dall’Onu, ci pare di capire…

Allora, diciamo che è l’Onu che conduce l’inchiesta. Il segretario generale riceve un rapporto molto critico sulla nostra gestione. E deve trasmetter­lo all’ufficio preposto alle inchieste. Questo è del tutto normale. Ciò che è deludente è che alla fine delle procedure di verifica mi si comunichi che il 98% delle accuse sono prive di fondamento. E si rimane lì. Non c’è una conclusion­e politica, un atto che certifichi formalment­e quanto contenuto nel rapporto. E questo non lo considero corretto. Ed è per questa ragione che ho rassegnato le dimissioni.

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KEYSTONE Dal marzo 2014 al novembre 2019 commissari­o generale dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestines­i

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