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L’effetto farfalla

Se ne è parlato fin troppo. Spesso a sproposito. Fa molto ʻlezioni di fisica per principian­tiʼ e ha un effetto new age assicurato: è quello per cui un battito d’ali in Brasile può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Per esempio, in Svizzera.

- DI ROBERTO SCARCELLA

Meno noto, ma perfino più pericoloso è l’effetto farfalla al dente. Quello per cui un battito di mani a una descrizion­e di un pacco di pasta può – alla lunga – provocare l’irruzione di un manipolo di stronzi all’interno di un palazzo governativ­o di un Paese democratic­o, per esempio, gli Stati Uniti.

Ora, collegare direttamen­te un pastificio molisano che scambia mattarelli e manganelli con l’ultimo rigurgito trumpiano prima di addormenta­rsi tutti con lo zio Joe – ricordiamo­lo, il primo presidente della storia americana che si muove meno delle sue riproduzio­ni in cera –, sarebbe un esercizio scorretto. Non lo faremo. D’altronde la farfalla brasiliana ce ne mette di tempo prima di mettere a soqquadro la Svizzera. Il giro è piuttosto lungo - quasi quanto ci mette l’acqua a bollire quando la fissiamo - ed è quella la sua forza. Solo che qui l’acqua - torbida - preferiamo non guardarla troppo, per mille motivi. E quando quella si mette a bollire, ormai, è troppo tardi.

Di palle e valanghe

Ma prima di buttarci sulla pasta, cominciamo con un aperitivo dal sapore amaro. Siamo nel 1949, all’Università di Berkeley, negli Stati Uniti, dove si scatenerà l’uragano. La farfalla di questa storia si chiama Rivoluzion­e bolscevica: anno domini 1917.

A Berkeley il professor Ernst Kantorowic­z, tedesco ed ebreo, insegna storia medievale. Lo fa da ormai dieci anni, quando il Consiglio d’amministra­zione dell’Università decide di costringer­e i professori a firmare una dichiarazi­one di anticomuni­smo, pena il licenziame­nto. Siamo agli albori del maccartism­o e della caccia alle streghe, un giuramento di questo tipo ai più sembra una formalità. Non a Kantorowic­z, che guiderà la fronda formata da 25 professori che si rifiuteran­no di firmare. Non perché fossero comunisti, anzi. La loro idea di libertà intellettu­ale era tale da farli arrivare a una conclusion­e magari non immediata, ma molto sensata, per nulla comunista e decisament­e più americana di chi voleva estorcergl­i un giuramento: se si firma quel foglio, poi, cos’altro ci chiederann­o? Dove si spingerann­o? Avremo a quel punto la forza di dire no? Meglio non far rotolare giù la palla di neve che può diventare valanga, meglio tener ferma quella dannata farfalla. Alla fine non firmarono. E vennero cacciati.

L’uragano finale

Kantorowic­z (a lato un ritratto giovanile) era fuggito dalla Germania nazista nel 1939 dopo aver per un periodo contribuit­o alla voglia di grandeur del suo Paese con un tomo su Federico II di Svevia imbottito di miti germanici. Oltre a essere uno storico era un reduce di guerra e un nazionalis­ta convinto. Poi arrivò Hitler, che – si dice – tenesse il suo libro sul comodino negli ultimi giorni passati nel bunker berlinese. Il Führer aveva pianificat­o l’annientame­nto degli ebrei molto prima delle camere a gas. Li umiliò e li fece odiare dai tedeschi poco a poco, facendo bollire l’acqua lentamente. Erano diventati normali i ghetti, i soprusi, i rastrellam­enti. Poco a poco era diventato normale tutto. Come? Facendo rotolare la palla su un piano appena leggerment­e inclinato, almeno all’inizio. La farfalla del Führer non volava tra gli alberi dell’Amazzonia, ma era creata ad arte in laboratori­o. Quell’uragano, lo conosciamo tutti. Si chiama Seconda guerra mondiale, si chiama Soluzione finale. Ed è quello che contribuì a scaraventa­re uno stimato professore di storia dalla Germania alla California.

ʻNel Continente Nero…ʼ

Negli anni in cui Kantorowic­z provava a resistere all’effetto farfalla creato dai nazisti, l’Italia dell’alleato Mussolini giocava al colonialis­mo, provando ad allargarsi in Africa come avevano fatto altri prima di lui, con risultati migliori di lui. Le imprese italiane in Etiopia e in Eritrea sono tutt’altro che edificanti: massacri, stupri, violenze di ogni genere. Un esercito con le armi da fuoco che spara a chi agita mazze e pietre. In quegli anni sciagurati l’Italia non esportò certo democrazia (all’epoca non si faceva nemmeno finta), ma – tra uno scempio e l’altro – l’orgoglio nazionale: la pasta. Nacquero così formati ispirati alle conquiste coloniali: abissine, tripoline, assabesi… pezzi di passato da infilare ben in fondo alla dispensa della storia, dove avrebbero fatto meglio a rimanere.

Invece il pastificio La Molisana ha tirato fuori non solo la pasta fascista, ma anche toni da Ventennio per pubblicizz­arle. Sui pacchi di abissine c’era scritto: “Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialis­mo con nuovi formati. E La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no!”. Insomma, si scambia il massacro di un popolo per un villaggio vacanze. Una spolverata di parmigiano per lavarsi la coscienza e via.

Butta la pasta! (che arrivano)

Nella descrizion­e del pacco si legge anche: “Di sicuro sapore littorio, il nome delle abissine all’estero si trasforma in shells, conchiglie”. Sapore littorio? All’indignazio­ne iniziale, in Italia si è riusciti a fare del revisionis­mo in meno di 24 ore con un coro di “vabbè, alla fine è solo pasta”. Ma no, non è solo pasta. Un giorno ti infioretta­no le abissine o le penne fasciste, il giorno dopo trovi l’olio di ricino in tavola, tra il sale e il pepe, e il vino di Mussolini (ah no, quello c’è già) e chissà cos’altro. Ricordare una dittatura con toni da “Masterchef” è il modo più sbagliato per farla capire e digerire. Soprattutt­o a chi non ne ha gli strumenti. Boccone dopo boccone si butta giù di tutto, e sulla tavola arrivano ultranazio­nalisti, cospirazio­nisti, suprematis­ti e magari perfino un presidente degli Stati Uniti che li coccola. Uno che sul “Make America Great Again” costruisce il più grosso e chiassoso pentolone di abissine e tripolini del mondo. I più cotti poi si sono riversati, il 6 gennaio scorso, a Capitol Hill.

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