Robinhood, radiografia di un ingranaggio
Rivolta dei ‘piccoli’, profitti dei più ‘grandi’
La narrazione da social network nelle ultime settimane è stata inarrestabile, riguardo a quel che è avvenuto sui mercati. Finalmente i piccoli investitori stanno conquistando il potere. Finalmente possono sfidare i grandi speculatori, quelli che puntano al ribasso contro le aziende. Così almeno il racconto popolare. E poco importa che la corsa dei piccoli innescata su Reddit nelle scorse settimane per comprare il titolo di GameStop, bruciando così gli hedge fund ribassisti, sia stata logica come comprare a quattro milioni di euro un appartamento di venti metri quadri in una periferia romana per danneggiare i grandi palazzinari del centro. Nella folla coordinata su Reddit, che ha partecipato a quella febbre, molti devono averci lasciato la camicia: GameStop è in profonda perdita da due anni e in crisi da cinque, eppure il suo titolo è prima salito del 1’639% (solo per chi aveva comprato prima della grande ammucchiata), ma poi ha perso in poche ore gran parte del suo valore teorico (per coloro che l’avevano comprato durante la febbre, cioè quasi tutti). La rivolta “populista” dei piccoli contro Wall Street avrà fatto saltare i piani di qualche fondo, ma non ha portato più benefici ai suoi partecipanti di quanto abbiano fatto rivolte populiste nella politica degli anni scorsi.
Di nome e non di fatto
Perché in realtà il punto è proprio qui: milioni di piccoli investitori oggi hanno nelle loro mani strumenti nuovi per partecipare al mercato, come milioni di cittadini ne hanno per partecipare al dibattito pubblico. In sé può essere un bene. I cittadini usano Facebook o Twitter per informarsi e dire la propria. Gli investitori hanno Robinhood, eToro o varie altre piattaforme di trading sul loro smartphone per vendere e comprare azioni, valute o derivati: app che combinano l’accesso al mercato per il trading con le caratteristiche – grafiche e nell’approccio psicologico – di un gioco online o di un social media. Negli Stati Uniti i protagonisti della recente corsa a GameStop, di quella all’argento venuta subito dopo, di quella a Tesla o alla società di autonoleggio Hertz finita in bancarotta (Chapter 11) sono divenuti tali proprio grazie a Robinhood. La piattaforma ormai è celebre: lanciata nel 2013 a Menlo Park (California) dai due startupper Vladimir Tenev e Baiju Bhatt, arrivata nel 2016 a un milione di profili attivi di investitori, l’anno scorso è balzata a oltre 13 milioni di utenti grazie soprattutto a una crescita vorticosa dall’inizio della pandemia. Chiusi in casa, con gli assegni dei sussidi del governo federale da spendere, moltissimi americani del ceto medio si sono buttati sulla app di trading e sui social media per coordinare con gli altri le loro mosse in vere e proprie camere dell’eco. In media i loro conti di brokeraggio sono piccoli, fra mille e cinquemila dollari secondo gran parte delle stime (mentre quelli di un concorrente tradizionale come E-Trade di Morgan Stanley ha conti medi di 69mila dollari).
Ma poiché questo strumento è un filtro per il passaggio di denaro da alcune tasche ad altre, resta da capire quale sia la direzione del flusso.
Resta da capire se questo sia uno strumento per togliere ai ricchi e dare ai poveri – come promette il nome, Robinhood –, o piuttosto un aspiratore che raccoglie centinaia di miliardi di invisibili briciole di un pulviscolo di denaro dal basso della società americana e le trasferisce verso l’alto: da chi ha di meno a chi ha già di più, con buona pace delle narrazioni di ‘rivolta’ popolare.
Come Facebook & Co.
Un esame del modello di business di Robinhood fa sospettare che il nome dell’azienda, in effetti, sia ironico. In apparenza no, è serio: la sua principale attrattiva per milioni di investitori agli esordi è nel fatto che promette trading sulle azioni a costo zero, senza commissioni di intermediazione. Esattamente come Facebook o Twitter o Google offrono i loro servizi gratis a miliardi di clienti. Ma come nel caso dei colossi del Big Tech, è legittimo chiedersi se il cliente di un servizio gratuito non sia lui stesso in realtà il prodotto da rivendere. Nel caso di Facebook, Twitter o Google lo è, perché gli utilizzatori accettano di cedere gratuitamente i dati riguardo alla loro privacy che poi i giganti digitali rivendono all’industria pubblicitaria. E nel caso di Robinhood?
Un esame da vicino del suo funzionamento fa pensare che, mutatis mutandis, il suo modello sia molto simile. Il cliente non paga commissioni esplicite per l’uso del servizio perché, anche in questo caso, il prodotto è lui. Robinhood riceve ogni giorno ordini per milioni di transazioni – per esempio, l’acquisto o la vendita del titolo Tesla – ma non le esegue in proprio: le trasferisce a market maker privati, grandi operatori di Wall Street che eseguono gli scambi, i quali sono i veri clienti paganti di Robinhood. Per esempio il principale referente di Robinhood è Citadel Securities, un’azienda di trading elettronico parte del gruppo Citadel, il quale in parallelo gestisce in proprio investimenti per 35 miliardi di dollari.
Ma perché Citadel e gli altri titani di Wall Street pagano Robinhood (briciole di dollari su ogni transazione) per rendere loro il servizio di eseguire gli ordini? Perché ci guadagnano, anche di più. In parte lo fanno vendendo ai clienti di Robinhood azioni o opzioni a prezzi più alti, in maniera infinitesima, rispetto ai prezzi ai quali loro stessi sarebbero disposti a comprare. Lucrano su una differenza che spesso è appena una frazione di cent per azione, ma in un processo che si ripete milioni di volte al giorno e nel tempo accumula grandi margini. La legge americana del resto non obbliga all’esecuzione degli ordini al miglior prezzo per il cliente, solo alla “migliore esecuzione”. In altri termini gli utilizzatori di Robinhood sono indotti a impostare ordini frequenti nella convinzione che siano gratuiti. Ma lo fanno solo perché non vedono le commissioni nascoste che i