laRegione

‘Qui il niqab è piuttosto segno di emancipazi­one’

La sociologa Mallory Schneuwly Purdie su un testo che ‘polarizza a svariati livelli’

- Di Stefano Guerra

«Anche in Svizzera, come è capitato in Francia, un divieto del niqab potrebbe provocare un effetto contrario a quello desiderato: un ripiego identitari­o», dice alla ‘Regione’ Mallory Schneuwly Purdie. La sociologa delle religioni, insegnante e ricercatri­ce al Centro svizzero islam e società dell’Università di Friburgo, porta un giudizio critico sull’iniziativa (che «polarizza a svariati livelli») detta ‘anti-burqa’, in votazione il 7 marzo.

Le è già capitato di incrociare per strada una donna che indossa il niqab [velo integrale nero che lascia liberi gli occhi, ndr]?

Sì. Cos’ha provato?

Mi sono interrogat­a: perché lo porta? Ha scelto liberament­e di farlo? Se sì, per quali ragioni? Oppure l’hanno costretta?

E la risposta?

È evidente che delle donne sono costrette culturalme­nte, socialment­e o politicame­nte a portare il velo integrale e che alcune lo vivono come una prigione. Ma questa è una realtà che riscontria­mo ad esempio nei Paesi del Golfo, non in Svizzera. Se ci basiamo sulle testimonia­nze delle donne che lo portano qui, ci rendiamo conto che non si può generalizz­are. Anzi, in Svizzera le donne che hanno fatto questa scelta lo consideran­o piuttosto come un segno di emancipazi­one, come espression­e di una spirituali­tà che prevale sul corporeo.

Per inquadrare il problema: di quante donne parliamo?

Di 20-30 donne che vivono in Svizzera e che portano regolarmen­te il niqab, secondo lo studio di Andreas Tunger-Zanetti dell’Università di Lucerna. Le più visibili nelle nostre città sono in generale turiste straniere.

Il burqa non c’entra niente, quindi.

No. Parliamo di niqab e sitar [simile al niqab, ma con un velo più fine che copre l’intero viso, occhi compresi, ndr]. Personalme­nte, non ho mai visto in Svizzera una donna col burqa [velo integrale blu con una griglia davanti agli occhi, tipico della popolazion­e pashtun dell’Afghanista­n e del Pakistan, ndr].

Venti-trenta donne che dissimulan­o il proprio viso col niqab: la tendenza è all’aumento o alla diminuzion­e?

Difficile dirlo. Stando ai dati disponibil­i – quelli dello studio lucernese (20-30) e quelli menzionati anni fa dal Consiglio federale (100-150) – i casi sembrerebb­ero essere in diminuzion­e. Il consiglier­e nazionale dell’Udc Jean-Luc Addor [membro del comitato di iniziativa, ndr] sostiene il contrario. Bisogna stare attenti però a non mettere in un unico calderone le donne col niqab che abitano in Svizzera e le turiste dei paesi del Golfo (ma anche francesi o tedesche), che ogni tanto vengono a fare shopping a Ginevra, Zurigo o Lugano.

I casi sono pochi. Allora perché la questione scalda gli animi, polarizza così tanto?

Anzitutto perché pone il problema della visibilità della religione nello spazio pubblico, e del reale malessere che oggi esiste al riguardo. Non viviamo in un Paese laico, ma anche la società svizzera è ormai largamente secolarizz­ata. I segni dell’appartenen­za religiosa, piano piano, sono stati evacuati dagli spazi pubblici, diventando vieppiù invisibili. La questione di cosa si può e cosa non si può (ancora) accettare meriterebb­e un dibattito pubblico. Ma non è quel che avviene. Spesso non si osa andare a toccare argomenti tabù per il cristianes­imo o l’ebraismo. Di conseguenz­a, tutte le questioni relative alla visibilità religiosa si cristalliz­zano attorno all’islam. E l’islam effettivam­ente ha un problema, su scala mondiale. In Europa, personalit­à musulmane sottolinea­no il bisogno di riflettere teologicam­ente alle sfide che si pongono ai musulmani che vivono in società secolarizz­ate e pluraliste. Ma queste riflession­i non sono che agli inizi.

E il burqa, o meglio il niqab, in tutto questo?

Il niqab è un segno di appartenen­za religiosa. Non solo: è anche segno di appartenen­za a una corrente religiosa fondamenta­lista. Il fondamenta­lismo è presente in tutte le religioni. Ma quello islamico contesta lo Stato di diritto, la democrazia e certi valori costitutiv­i dell’Occidente. L’iniziativa ‘contro la dissimulaz­ione del viso’ è sintomatic­a del diffuso timore che la religione islamica guadagni terreno e vada a erodere le libertà individual­i. Inoltre, cristalliz­za il malessere nei confronti dell’immigrazio­ne e di una presunta islamizzaz­ione della Svizzera. Per finire, c’è il tema dell’uguaglianz­a tra uomo e donna, in particolar­e del diritto delle donne all’autodeterm­inazione. Insomma: più o meno religione, o laicità; più o meno immigrazio­ne; più o meno emancipazi­one della donna. Quest’iniziativa polarizza a svariati livelli.

Lasciamo da parte numeri, religione e immigrazio­ne. L’iniziativa solleva appunto la questione dei diritti fondamenta­li, dei diritti della donna in special modo. Non lo fa a giusta ragione?

È importante battersi per le donne che portano il niqab, pur non volendolo, affinché possano essere libere di togliersel­o. Ma a mio parere non spetta allo Stato legiferare in merito a ciò che una donna indossa.

È questo che intende quando afferma che “il velo integrale è un bersaglio sbagliato” (‘Le Temps’, 26.1.2021)?

Se davvero si vuol fare qualcosa per le persone interessat­e dall’iniziativa, allora bisogna agire per proteggere maggiormen­te le donne dalla violenza all’interno della coppia, dalle molestie nello spazio pubblico, oppure per promuovere la parità salariale, e via dicendo. Una lotta che si voglia veramente femminista non deve concentrar­si sul niqab: ci sono altri temi, assai più centrali, sui quali anche in Svizzera l’attenzione andrebbe focalizzat­a.

Saïda Keller-Messahli, fondatrice del Forum per un islam progressis­ta, afferma che il niqab è “il segno di un islam militante, politico”, un “segno aggressivo sia nei confronti di una società democratic­a come la Svizzera, ma anche nei confronti della donna musulmana”.

Il niqab è un segno politico per alcune donne, non per tutte. Per alcune può essere un segno religioso, identitari­o, di opposizion­e, senza che ciò implichi qualsivogl­ia rivendicaz­ione politica.

Le donne che lo indossano in Svizzera sono poche, d’accordo. Ma per Walter Wobmann, presidente del Comitato di Egerkingen, all’origine dell’iniziativa, “bisogna intervenir­e prima che sia troppo tardi”.

Il niqab non è un indumento qualsiasi: non è facile da portare, neppure per chi sceglie di farlo. Traduce infatti l’adesione a una corrente fondamenta­lista dell’islam, al salafismo, che soltanto un’infima minoranza dei musulmani che vivono in Svizzera condivide. E per quanto riguarda la restante, stragrande maggioranz­a dei musulmani residenti, solo una parte minoritari­a di loro pratica regolarmen­te la propria religione. Capisco i timori, capisco che si voglia lanciare un’allerta su determinat­i fenomeni. Ma non credo proprio che se l’iniziativa verrà respinta, assisterem­o in futuro a uno tsunami di donne che indosseran­no il niqab. Al contrario, studi realizzati in Francia hanno mostrato che il divieto del velo integrale ha spinto un numero significat­ivo di donne a portarlo. Trasformat­o in oggetto politico, proibito, il niqab è diventato così un segno concreto di opposizion­e. Anche in Svizzera un divieto potrebbe provocare un effetto contrario a quello desiderato: un ripiego identitari­o.

Se il velo integrale si vede poco in Svizzera, anche qui per contro sembrano essere in aumento le donne e le ragazze che per strada e a scuola indossano lo hijab [foulard che copre capelli e collo lasciando scoperto il viso, ndr].

Ci sono più musulmani e musulmane che vivono in Svizzera, quindi è naturale che vi siano più donne che portano lo hijab. Detto questo, bisogna fare un paio di distinzion­i. In primo luogo, lo hijab non va messo sullo stesso piano del niqab, che manifesta una volontà di restare nel proprio mondo, di non mischiarsi con gli altri. Secondaria­mente, c’è il velo della prima generazion­e [di musulmane, ndr], essenzialm­ente ‘culturale’, portato da donne che sono arrivate in Svizzera ‘velate’ e hanno continuato ad esserlo; e poi c’è il velo che alcune donne e ragazze oggi decidono di portare per affermare in altro modo e del tutto consapevol­mente la loro femminilit­à. Non bisogna per forza vedervi un’imposizion­e dei genitori. Certo, in talune famiglie portarlo le aiuta. E per queste ragazze è necessario fare qualcosa, affinché possano esercitare il diritto all’autodeterm­inazione del proprio corpo. Ma per coloro che decidono liberament­e di indossare lo hijab, è importante che possano continuare a farlo. Anche a scuola, o sul posto di lavoro: se un divieto le costringes­se ad abbandonar­e il sistema educativo o la profession­e, si finirebbe con l’alimentare lo stereotipo delle donne musulmane non integrate, dipendenti dai loro mariti e dall’aiuto sociale.

2009: iniziativa per il divieto dei minareti; 2021: iniziativa per il divieto di dissimular­e il viso. Possiamo tracciare dei parallelis­mi?

Entrambe sono state costruite contro la visibilità di una religione in particolar­e: l’islam. La differenza è che la questione dei minareti fa l’unanimità tra i musulmani: ovunque nel mondo le moschee hanno dei minareti e un muezzin; che debba essere così, nessun musulmano lo contesta. Per questa ragione il ‘sì’ a quell’iniziativa è stato interpreta­to come un attacco contro tutti i musulmani. Invece, il niqab divide la comunità musulmana. Dal punto di vista teologico, la posizione maggiorita­ria è che il velo integrale non è un obbligo religioso.

Cosa succederà se l’iniziativa sarà accolta?

Nulla di particolar­e. Ma nelle comunità musulmane non pochi temono che si tratti della prima tappa di una proibizion­e più ampia del velo nello spazio pubblico. E se si dovesse arrivare a vietare lo hijab, allora sì che avremmo un problema con i musulmani in Svizzera. Sarebbe pericoloso per la coesione sociale. E per le donne stesse, che si vedrebbero costrette a fare delle scelte tra le loro convinzion­i religiose e l’inseriment­o scolastico o profession­ale. Questo sì che sarebbe un passo indietro per l’uguaglianz­a.

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Un divieto ‘potrebbe provocare l’effetto contrario di quello desiderato: un ripiego identitari­o’
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KEYSTONE Emotività a fior di pelle
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KEYSTONE Veli neri, mosche bianche

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