laRegione

Il furgone di Dickens

- di Lorenzo Erroi

Ultimament­e si fa un gran parlare di responsabi­lità sociale delle imprese: si sfogliano i loro rapporti annuali e si vedono impiegati che piantano alberelli, genitori raggianti che accompagna­no i pargoli al nido aziendale. Li si legge come certi patinati dal dentista, cercando di dimenticar­e il trapano che ci aspetta. Per carità, aziende-modello esistono, non si vuole certo fare della retorica anti-imprendito­riale. Ma la storia di pacchi e fattorini che raccontiam­o a pagina 5 mostra come il futuro vada anche in un’altra direzione, quella di giornate dickensian­e durante le quali non ci si può fermare neppure per un panino o per fare la pipì.

Perché con turni da dodici ore e centocinqu­anta consegne non c’è neanche il tempo per salutare il cliente che arriva ad aprire la porta (ricordiamo­celo, la prossima volta che troviamo il pacco con le scarpette nuove lasciato sul pianerotto­lo alla bell’e meglio). C’è chi si ammala, chi perde la famiglia. La Dpd – l’azienda della quale si parla – sostiene che non è colpa sua: si limita a subappalta­re il servizio a piccole ditte locali, sono loro che devono preoccupar­si dei loro dipendenti. Sicché gli straordina­ri non pagati, i ritmi massacrant­i, le vessazioni continue sarebbero i soliti casi isolati (quante volte l’abbiamo sentita?). Eppure tutto il sistema è gestito in maniera centralizz­ata, ed è davvero difficile sostenere che la ‘casa madre’ non ne sappia niente. Siamo all’opposto della responsabi­lità sociale: il mantra del “non c’entro nulla, passavo di qui per caso”, il gioco del cerino che accomuna molte catene del subappalto, non solo in un settore in crescita come quello dei pacchi.

Il fenomeno è reso possibile anche da un diritto del lavoro inadeguato, che permette di avvalersi degli autisti e fingere di non conoscerli neppure: il caso dei taxisti di Uber è diventato emblematic­o in tutto il mondo. La scusa è sempre quella di creare lavoro attraverso la flessibili­tà, parola-feticcio che andrebbe bandita almeno al di fuori dei corsi di yoga. Non è che questi metodi siano quelli più diffusi, almeno per ora. Ma rischiano di intaccare interi settori, perché abbattendo il costo del lavoro consentono di praticare prezzi stracciati ed eliminare la concorrenz­a. Ecco allora che anche le altre aziende dovranno tagliare la pausa, limare gli straordina­ri, ridurre i tempi di consegna. Per questo – e non per chissà quale velleità ipernormat­iva – servono regole e controlli. Non è neanche una questione di pistolotti morali, anzi. Il problema è che strangolan­do il lavoro si soffoca l’intera catena di produzione, mentre lavoratori con le tasche vuote sono anche pessimi consumator­i: prima o poi a strozzarsi da solo finisce per essere il mercato stesso, con buona pace di chi sostiene che si regola da solo.

Forse siamo ancora lontani da questa reazione autoimmune, però i suoi effetti si stanno già facendo sentire nelle profession­i che impiegano le persone più vulnerabil­i: i migranti, i giovani senza formazione, in molti settori le donne. Gli stessi che sono e saranno più colpiti dalla crisi, gli stessi che secondo un’analisi del Politecnic­o di Zurigo hanno perso in media il 20% di un reddito già stenterell­o. E che sono insieme oggetto e preda preferita della propaganda populista. Per cui no, non è più un ‘caso isolato’, ma un’ombra sulla cara vecchia democrazia liberale. Sarà dunque ora di parlare davvero di responsabi­lità sociale, ma stavolta anche fuori dagli uffici del marketing.

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