Il giorno più cruento della dittatura militare
Almeno 18 manifestanti uccisi durante le proteste
In Birmania la repressione armata delle proteste non si ferma. Ieri, un mese dopo il golpe, è stato il giorno più drammatico: almeno 18 manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza in diverse città del Paese, teatro di proteste che neanche una nuova ondata di arresti e il crescente uso della forza riescono a fermare. Secondo l’Onu, le forze di sicurezza sono intervenute sparando proiettili veri contro folle pacifiche. Sui social media girano video di poliziotti anti-sommossa che sparano verso gruppi di manifestanti disarmati, nonché scene di guerriglia urbana con esplosioni e gas lacrimogeni. A oggi sono almeno 22 le persone uccise dal primo febbraio, quando le forze armate del generale Min Aung Hlaing hanno preso il potere destituendo il governo di Aung San Suu Kyi.
La pressione internazionale non sembra finora avere alcuna influenza su Min Aung Hlaing. Due giorni fa, all’Onu, è stato lo stesso ambasciatore birmano Kyaw Moe Tun a sostenere la causa della protesta, esortando il mondo a utilizzare “ogni mezzo necessario per agire”. In risposta, i media statali birmani hanno annunciato ieri che il diplomatico è stato rimosso dall’incarico. Oggi, intanto, è prevista la seconda udienza del processo contro Suu Kyi, accusata di importazione illegale di sei walkie-talkie e di aver violato le disposizioni di sicurezza relative al coronavirus. Accuse farsesche che potrebbero costarle fino a tre anni di prigione e l’esclusione dalle prossime elezioni – sempre che i militari non si rimangino l’impegno a tenerle tra un anno.