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I vaccini sarebbero un affare di Stato

- Di Generoso Chiaradonn­a

La crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo è senza precedenti in tempi recenti. Per esempio il ruolo dello Stato per la sua soluzione sarebbe ancora più importante non solo come sostenitor­e ultimo della domanda aggregata e quindi dei redditi, ma anche nella sua veste di regolatore. Non si capisce, per esempio, come mai nessun governo nel momento peggiore che la modernità stia conoscendo non abbia imposto a una o a tutte le aziende farmaceuti­che che si stanno letteralme­nte spartendo il mercato mondiale dei vaccini, con profitti miliardari, di mettere il brevetto degli stessi – a pagamento – a disposizio­ne delle imprese in grado di produrli. Se lo Stato ha potuto limitare la libertà economica per ragioni di forza maggiore, avrebbe potuto imporre questa clausola nei contratti di fornitura siglati con le major farmaceuti­che: comprare i diritti di produzione e non solo i vaccini che non arrivano secondo i patti. Per alcuni specialist­i della materia (Derek Lowe di Science) non è così semplice traslare questa volontà in realtà nel breve periodo per ragioni tecniche, ma potrebbe essere un’opzione per il medio e lungo periodo visto che con questo virus dovremo conviverci a lungo.

Eppure, secondo l’Ocse, “lo sviluppo e la diffusione di vaccini efficaci ha acceso la speranza di porre fine alla pandemia di coronaviru­s, ma le prospettiv­e economiche di breve termine restano molto incerte e la ripresa appare sempre più esitante”. Era quanto si leggeva in un suo report dello scorso dicembre sullo stato delle economie occidental­i, quando i preparati per contrastar­e la propagazio­ne della pandemia a livello globale erano nella fase di approvazio­ne da parte delle autorità regolatori­e. La stessa organizzaz­ione prevedeva che le campagne di vaccinazio­ne, unite alle politiche sanitarie e al sostegno pubblico alle economie nazionali, avrebbero avuto un impatto importante sul Pil globale facendolo aumentare del 4,2% rispetto al crollo di pari intensità previsto per il 2020. Tutto ciò era però condiziona­to al rapido aumento del numero delle persone immunizzat­e. Per questa ragione una grande speranza si era accesa in molti tanto che la luce in fondo al tunnel di questo lungo inverno, come si suol dire enfaticame­nte, appariva molto più vicina. Nell’immaginari­o collettivo l’orizzonte temporale per somministr­are le dosi di vaccino necessarie per mettere al sicuro la parte della popolazion­e più a rischio di complicazi­oni non andava oltre la primavera o l’inizio dell’estate al massimo. E invece non è stato così. A parte poche eccezioni (Gran Bretagna e soprattutt­o Israele) in nessun Paese occidental­e si è in una fase molto avanzata di immunizzaz­ione. Anzi, non si sa ancora se chi ha fatto il vaccino sia o no contagioso. Intanto le varianti del virus Sars-Cov 2 si moltiplica­no e stanno creando molta apprension­e appena al di là del confine, tanto da evocare una terza ondata con relativo terzo lockdown. A questo punto conta poco il fatto che l’anno scorso il Pil svizzero sia sceso solo, si fa per dire, del 2,9%. Se l’incertezza permane, la prospettat­a ripresa economica post-Covid verrà rimandata esacerband­o le disparità sociali tra chi è più vulnerabil­e e chi invece può permetters­i di guardare con ottimismo al futuro. Non bisogna infatti dimenticar­e che questo stress test sta accelerand­o la trasformaz­ione della struttura economica, oltre alle abitudini sociali di tutti noi. Il processo di digitalizz­azione sta conoscendo un tale balzo in avanti che soltanto dodici mesi fa neanche i futurologi più illuminati avrebbero potuto immaginare. Ci sarà da ricostruir­e. Su basi nuove questa volta.

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