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Il ‘nazista’ Philip Johnson espulso dal MoMA

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Dopo un braccio di ferro con un gruppo di noti artisti, architetti ed esponenti del mondo accademico, il MoMA ha accettato di mettere temporanea­mente all’indice Philip Johnson da una delle sue gallerie. Il nome dell’architetto della Glass House, di cui di recente sono emerse simpatie per le teorie della razza del Terzo Reich, sarà coperto dall’opera collettiva di un gruppo di artisti afro-americani per tutta la durata della mostra “Reconstruc­tions: Architectu­re and Blackness”.

Johnson ha lavorato al museo e con il museo per ben sei decenni durante i quali “non ha soltanto avallato, ha anche personalme­nte istigato pratiche razziste nel campo dell’architettu­ra”, avevano scritto al MoMA, tra gli altri, l’artista Xaviera Simmons, l’architetta del paesaggio Kate Orff e il professore di architettu­ra a Princeton Mitch McEwen. Citando il fascino esercitato su Johnson dal nazismo e la sua opera di proselitis­mo negli Usa negli anni Trenta, tra cui il tentativo di fondare un partito fascista in Louisiana, oltre che al museo, il “Johnson Project Group” aveva scritto anche a Harvard chiedendo di cancellare il nome dell’architetto da un edificio di Cambridge da lui progettato come tesi di dottorato. L’ateneo aveva prontament­e accettato. Ora è la volta del MoMA, e non è chiaro cosa succederà alla chiusura della mostra: intanto, e fino al 31 maggio, al posto del nome di Johnson i visitatori vedranno l’opera del Black Reconstruc­tion Collective, un gruppo che raccoglie i dieci partecipan­ti alla rassegna: Emanuel Admassu, Germane Barnes, Sekou Cooke, J. Yolande Daniels, Felecia Davis, Mario Gooden, Walter Hood, Olalekan Jeyifous, V. Mitch McEwen e Amanda Williams. Una tela di denim di tre metri per tre che contiene il manifesto del gruppo, con l’auspicio di un futuro per artisti e architetti di colore.

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