laRegione

Giudice francese, riciclaggi­o svizzero

- Di Federico Franchini

Tutti i grandi casi di criminalit­à finanziari­a che hanno toccato la Francia negli ultimi decenni sono passati dalle sue mani. Renaud Van Ruymbeke ha incarnato il ruolo di magistrato transalpin­o inflessibi­le e combattivo. Ha indagato in settori sensibili e ad alto rischio corruzione, come il petrolio e le armi; e non ha guardato in faccia a nessuno quando i flussi di denaro sporco finivano nelle tasche di questo o quel politico. Noto per la sua discrezion­e, oggi in pensione, Renaud Van Ruymbeke ha scritto un libro pubblicato di recente (‘Mémoires d’un juge trop indépendan­t’, Editions Tallandier, 2021) in cui ripercorre la sua carriera e denuncia le zone d’ombra della finanza internazio­nale. A partire dalla Svizzera, da dove sono passate quasi tutte le sue inchieste. Lo abbiamo intervista­to, partendo proprio da un’iniziativa lanciata a Ginevra venticinqu­e anni fa per sensibiliz­zare l’opinione pubblica sulla necessità di collaboraz­ione internazio­nale nella giustizia, oltre che per denunciare il ruolo dei paradisi fiscali nelle dinamiche di corruzione e riciclaggi­o globali.

Signor Van Ruymbeke, nel 1996, con alcuni suoi colleghi europei ha lanciato l’Appello di Ginevra. Di che cosa si tratta?

L’appello di Ginevra nasce da una constatazi­one: le società e i conti offshore permettono ai grandi frodatori, ai criminali di alto livello e ai corrotti di sfuggire alla giustizia. Bisognava quindi riformare in profondità il sistema. Era l’epoca che veniva dopo Mani Pulite in Italia e gli scandali in Spagna. Io stesso avevo indagato sul finanziame­nto illecito del Partito socialista e su altre vicende che mostravano la difficoltà della cooperazio­ne internazio­nale. In questo contesto volevamo avvertire i cittadini sui privilegi accordati dai paradisi fiscali e sulla nostra impotenza di fronte alla corruzione.

Perché Ginevra?

La città era un simbolo della frode fiscale e del riciclaggi­o. Ogni volta che noi giudici o procurator­i rimontavam­o i circuiti per comprender­e i meccanismi della corruzione ci scontravam­o con le frontiere e con le difficoltà nell’ottenere le informazio­ni bancarie in alcuni Paesi. In Svizzera in particolar­e. Ciononosta­nte, in questo contesto, il procurator­e generale di Ginevra, Bernard Bertossa, era molto impegnato nella lotta al riciclaggi­o. Ciò che all’epoca, in Svizzera, non era evidente. Per questo abbiamo scelto Ginevra, simbolo di questa coincidenz­a d’interessi tra i Paesi vittima della corruzione e la Confederaz­ione, dove il denaro di questa corruzione era riciclato.

Ha citato Mani Pulite. Con che sguardo, dalla Francia, ha osservato il lavoro dei suoi colleghi italiani?

L’Italia aveva bisogno di questa operazione per mettere fine a una situazione anormale. I procurator­i italiani erano all’avanguardi­a nel perseguire le pratiche illecite legate al finanziame­nto della vita politica. Erano totalmente indipenden­ti dal potere. Ciò che costituisc­e una differenza fondamenta­le con la Francia dove mi sono personalme­nte scontrato con inchieste che non potevano partire o che erano bloccate da procurator­i poco indipenden­ti.

A Ginevra c’era Gherardo Colombo, ma non Antonio Di Pietro. Come mai?

Ci rifiutammo di invitarlo perché si era lanciato in politica e non volevamo nessuna interferen­za di questo tipo nella nostra iniziativa.

Ritornando alla Svizzera, come valuta la collaboraz­ione con i suoi colleghi elvetici?

La Svizzera è un Paese paradossal­e. È una delle principali destinazio­ni della frode fiscale e del denaro sporco. Ma è anche il Paese dell’Appello di Ginevra. Questa città simbolo ha avuto un ruolo pionierist­ico nella lotta ai grandi scandali finanziari. L’ho constatato direttamen­te: le mie inchieste mi hanno portato spesso in riva al Lemano dove ho potuto incontrare grandi profession­isti nella lotta al riciclaggi­o. Colleghi che mi hanno enormement­e aiutato a identifica­re i flussi finanziari al centro di ogni inchiesta. Mi ricordo che nell’ambito dell’affare Elf, il loro lavoro è stato impression­ante e determinan­te. Ho però constatato un’enorme differenza tra la Svizzera romanda e quella tedesca. Era molto difficile, all’epoca, ottenere informazio­ni dalla giustizia di Zurigo o Zugo: lì ogni pretesto era buono per non rispondere e si sentiva il potere del mondo finanziari­o.

Ha menzionato l’affaire Elf, una vicenda che ha visto come protagonis­ta anche una piccola società di Chiasso. Se lo ricorda?

Certamente. «Ho bisogno di Oscar»: questa frase spifferata al telefono a uno dei banchieri di Elf attivava un sistema efficace per rimpatriar­e dalla Svizzera alla Francia importanti somme di denaro contante. Si parla di decine di milioni di franchi francesi dell’epoca indirizzat­i ad Alfred Sirven, massimo dirigente di Elf. Pensavamo che il denaro fosse poi restituito a vari referenti politici. A organizzar­e questo rimpatrio vi era questa società finanziari­a di Chiasso che in cambio prelevava una commission­e del 3%.

Nel suo libro critica l’operato della Svizzera nell’affaire Falciani. Cosa contesta alla Confederaz­ione?

Questo caso racchiude tutta l’ambiguità della Svizzera. La Procura federale ha perseguito Hervé Falciani in seguito alla denuncia della banca Hsbc per il furto dei dati. Berna ha spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti e l’ex informatic­o è stato arrestato in Spagna, dove ha passato diversi mesi in prigione. La lista Falciani fa poi il giro del mondo e diversi Stati si interessan­o al suo contenuto. La Svizzera, però, avrebbe dovuto validare queste informazio­ni, ma la giustizia elvetica ha rifiutato ogni assistenza giudiziari­a al riguardo. In Svizzera, la vittima era la banca.

Con gli Stati Uniti, l’approccio elvetico è stato differente...

Quando, nel 2007, l’ex impiegato di Ubs Bradley Birkenfeld consegna alle autorità fiscali americane la sua lista con i nomi dei clienti evasori, Washington esige e ottiene la lista dei clienti della banca. Ciò che mostra i rapporti di forza. Una banca svizzera che non può più lavorare negli Usa tanto vale che chiuda. La Svizzera è così costretta a collaborar­e con gli Stati Uniti dove non solo Birkenfeld non è sanzionato, ma riceve una ricca ricompensa. Grazie alle sue informazio­ni, le autorità fiscali americane hanno recuperato cinque miliardi di dollari. Questa vicenda ha generato un braccio di ferro tra i due Paesi sul segreto bancario. Sotto l’enorme pressione di Washington, Berna finirà per cedere.

Dalla caduta del segreto bancario, come è cambiata l’attitudine della Svizzera?

Ci sono stati incontesta­bilmente dei progressi nella lotta al riciclaggi­o. L’ho constatato di persona. C’è stata un’evoluzione positiva, non solo a Ginevra, ma anche a Berna dove, dopo la riforma e la creazione del Ministero pubblico della Confederaz­ione, si sono centralizz­ate le inchieste sulla criminalit­à finanziari­a transnazio­nale. C’è però un nuovo problema.

Quale?

La piazza finanziari­a elvetica ha operato una delocalizz­azione. Delle banche e delle fiduciarie hanno mantenuto i loro clienti, ma hanno preso delle precauzion­i: hanno messo i soldi in conti aperti altrove, a Singapore, Hong Kong o Dubai, spesso attraverso l’utilizzo di società panamensi. Si tratta di una finzione volta a eludere le regole della cooperazio­ne giudiziari­a. Fiduciarie e banche svizzere dispongono del savoir faire e conoscono i loro clienti: continuano a gestire i loro fondi, ma subappalta­no la parte bancaria a istituti basati in queste nuove piazze rifugio. È questa la nuova ingegneria messa in atto a partire dal 2009, destinata a preservare l’opacità delle operazioni e a mettere i clienti al riparo da ogni indagine fiscale o giudiziari­a.

Ciò che conferma che la lotta ai paradisi fiscali, per essere efficace, non può che essere mondiale...

Esattament­e. Ci sono voluti anni per fare in modo che i rifugi europei come la Svizzera, il Lussemburg­o o il Liechtenst­ein accettasse­ro di collaborar­e, seguendo il cammino tracciato da Ginevra negli anni Novanta. Ma in Europa, Paesi come Cipro e Malta resistono. Senza contare il resto del mondo: i Caraibi, Singapore o Dubai, che è ormai il nuovo Eldorado.

Venticinqu­e anni dopo l’Appello di Ginevra, a suo modo di vedere, a livello internazio­nale, c’è la volontà politica per eradicare i paradisi fiscali?

In effetti solo una volontà politica collettiva e determinat­a può riuscire in questo compito. Era in filigrana il senso dell’Appello di Ginevra. Un quarto di secolo fa eravamo qualche giudice e qualche procurator­e. È tempo ormai di estendere l’azione ed esigere dai Paesi rifugio una trasparenz­a totale per mettere fine al riciclaggi­o dei proventi della frode e del crimine. Certo, ci sono stati dei progressi, soprattutt­o in Europa. Ma bisogna spingersi oltre nella lotta al riciclaggi­o che è un problema transnazio­nale. Purtroppo penso che non ci sia la volontà politica, su scala internazio­nale, per eradicare i paradisi fiscali e imporre sanzioni commercial­i a piazze come Dubai. E finché non ci sarà questa volontà politica, ci sarà sempre il riciclaggi­o.

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KEYSTONE Pedalare veloci
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TALLANDIER Il libro

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