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La scienza tra rispetto e responsabi­lità

Intervista ad Alberto Mantovani, ospite oggi alla consegna delle fellowship Ibsa

- di Ivo Silvestro www.ibsafounda­tion.org).

“Responsabi­lità sociale della ricerca scientific­a”: sarà questo il titolo dell’intervento che l’immunologo Alberto Mantovani, direttore scientific­o dell’Istituto clinico Humanitas, terrà oggi, mercoledì 14 aprile, alle 15 durante la cerimonia di premiazion­e delle fellowship della Fondazione Ibsa, le borse di ricerca che quest’anno, per la nona edizione, andranno a cinque giovani ricercator­i: alle quattro aree di dermatolog­ia, endocrinol­ogia, fertilità e urologia, medicina del dolore, ortopedia e reumatolog­ia si aggiunge infatti la categoria speciale infezioni da coronaviru­s. La cerimonia sarà presentata da Silvia Misiti, direttrice della Fondazione Ibsa per la ricerca scientific­a, e visibile in streaming sui canali social della fondazione (info:

Professor Mantovani, nel suo incontro parlerà di responsabi­lità sociale della ricerca scientific­a: che cosa intende?

Si può parlare di responsabi­lità sociale della ricerca scientific­a a diversi livelli. Il primo livello, è ovvio, ha a che vedere con l’integrità e purtroppo dobbiamo riconoscer­e che ci sono stati episodi di comportame­nto scorretto, delle vere e proprie falsificaz­ioni e alla fine le conseguenz­e le ha pagate la comunità. Il caso più clamoroso riguarda il presunto legame tra il vaccino trivalente per morbillo, parotite, rosolia e l’autismo. Il caso Wakefield, dal nome dell’autore di questa ricerca fraudolent­a, è un chiaro esempio di questo primo livello di responsabi­lità sociale di chi fa ricerca scientific­a. Un secondo livello ha a che vedere con l’oggetto della ricerca scientific­a, perché questo può avere delle conseguenz­e sociali. Ad esempio, un importante ente italiano, la Fondazione Cariplo, non sostiene ricerche che possano avere applicazio­ni in strumenti di guerra. Il terzo livello della responsabi­lità sociale di chi fa ricerca riguarda la comunicazi­one. Io sono convinto che faccia parte dei doveri dei ricercator­i comunicare i risultati del proprio lavoro – riprendo un’affermazio­ne del filosofo della scienza Karl Popper – nel modo più chiaro, più semplice e più umile possibile.

Responsabi­lità sociale verso chi? Vediamo con i vaccini per il Covid, ma il problema non riguarda solo la pandemia, che ci sono grosse disparità a livello internazio­nale.

Questo è il problema, più generale, di garantire l’accesso alle risorse sanitarie alla parte più povera del mondo. È un tema al quale sono estremamen­te sensibile: per cinque anni ho servito nel board di Gavi, l’Alleanza globale per i vaccini, che è il motore dell’iniziativa Covax per la distribuzi­one globale dei vaccini contro il Covid. Bisogna fare qualcosa e questo per quelle che definisco le due S. La prima è la solidariet­à: un dovere morale, se vuole una responsabi­lità sociale. La seconda è la sicurezza di tutti noi: siamo di fronte a una pandemia e la circolazio­ne del virus in altre parti del mondo è una minaccia per tutti. Non è un caso se due varianti le chiamiamo brasiliana e sudafrican­a: occuparci della condivisio­ne, dell’accesso equo agli strumenti contro il Covid risponde a un imperativo morale di solidariet­à e a una convenienz­a per tutti.

Ha citato l’iniziativa Covax: secondo lei perché non ha funzionato?

Non direi che non ha funzionato: l’iniziativa Covax ha iniziato a funzionare, ho con me la fotografia di un operatore sanitario in Kenya che riceve una dose di un vaccino fornito da Covax. L’iniziativa ha un obiettivo significat­ivo ma limitato: coprire il 20 per cento della popolazion­e, facendo arrivare i vaccini nel Paese, diciamo nella capitale, ma la vera sfida è far arrivare le dosi alle persone giuste, raggiunger­e tutte le zone. Questo viene fatto molto bene ad esempio da un’organizzaz­ione alla quale sono molto vicino che si chiama Medici con l’Africa Cuamm. Covax quindi sta funzionand­o, anche se con risorse limitate – ed è importante ricordare che a breve si porrà un problema di rifinanzia­mento da parte dei Paesi ricchi – ma da sola non basta.

Questo per il Covid, ma altre malattie che colpiscono soprattutt­o Paesi a basso reddito, come la malaria, attendono ancora lo sviluppo di vaccini efficaci.

Quello delle cosiddette “tre grandi”, malaria, tubercolos­i e Hiv, è un problema, ma dobbiamo ricordarci che ogni anno un milione e mezzo di bambini muoiono perché non hanno accesso ai vaccini di base, quelli disponibil­i. C’è quindi un problema a monte: al mondo un bambino su cinque non ha accesso a tutti i vaccini di cui ha bisogno.

Per malaria, tubercolos­i e Hiv non c’è comunque solo un problema di risorse, ma c’è anche un’obiettiva difficoltà scientific­a. E speriamo che strumenti come i vaccini a mRna, una novità assoluta portata dallo sforzo per affrontare il Covid-19, ci aiutino anche contro queste malattie.

Il terzo livello di responsabi­lità sociale della ricerca riguarda la comunicazi­one. Pensando a questa pandemia, che cosa comporta?

Nella mia attività di comunicazi­one cerco di attenermi a quelle che definisco le tre R: il rispetto delle competenze, il rispetto dei dati e la responsabi­lità sociale.

Posso fare degli esempi, iniziando dal rispetto delle competenze. Io sono un immunologo, quando mi vengono poste domande sulle politiche di salute pubblica o sulle curve epidemiolo­giche, rimando ad altri colleghi.

Secondo punto, il rispetto dei dati. Purtroppo abbiamo sentito molte cose che non avevano conferme nei dati: è stato detto che l’idrossiclo­rochina curava il Covid, che il plasma iperimmune curava il Covid, che il cortisone dato precocemen­te cura il Covid. È stato anche detto che il virus si stava attenuando, e potrei continuare a lungo. Sono tutte cose che non rispettava­no i dati.

Ma i dati si possono prestare a varie interpreta­zioni.

Io parlo dei dati condivisi nella comunità scientific­a, sottoposti al vaglio della comunità scientific­a. Stiamo parlando di comunicazi­one della scienza e un ricercator­e non può dire la prima cosa che gli passa per la testa.

Come Humanitas siamo stati tra i primi a riportare che tra le persone che hanno già sviluppato la malattia basta una sola dose di vaccino per avere una risposta immunitari­a molto alta. Se l’avessimo detto solo noi non sarebbe stato rilevante, ma il risultato è stato confermato da numerosi gruppi di ricerca: è questo che intendo con dato condiviso.

È vero che nella comunità scientific­a ci sono e ci devono essere discussion­i e divergenze, ma ci sono anche margini di consenso.

E la terza R, la responsabi­lità sociale della comunicazi­one?

Se io dico che il virus si è attenuato, o che certi farmaci curano il Covid, incoraggio comportame­nti irresponsa­bili e non adeguati. Chi esce dal laboratori­o o dal reparto ospedalier­o deve pensare alle conseguenz­e di quello che dice.

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Alberto Mantovani, direttore scientific­o dell’Istituto clinico Humanitas

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