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Il Brasile e l’eterno ritorno di Lula

- Di Roberto Scarcella

Che la legge fosse “un modo astuto per aggirare la giustizia”, in Brasile lo sapevano già tutti. Anche perché – per lasciarla scolpita nell’anima del Paese – la dea degli aforismi questa frase non l’ha fatta uscire dalla bocca di un accigliato generale, ma da quella di un amatissimo autore satirico, Millôr Fernandes: uno che si faceva volere bene a suon di battute e – tra una vignetta e l’altra – trovava anche il tempo di tradurre Shakespear­e. Perché la verità spetta ai giullari dirla, ma se hanno studiato commedia e tragedia dai migliori, la dicono meglio.

Se mai ce ne fosse stato bisogno, in questi giorni abbiamo avuto la riprova che l’etichetta di Fernandes è ancora valida e si può appiccicar­e al dossier che ha coinvolto, anzi travolto, l’ex – e a questo punto forse anche futuro – presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Per tutti, e per brevità, Lula.

L’ex sindacalis­ta diventato l’uomo più potente del Paese, intoccabil­e per quasi vent’anni, a pochi mesi dalle elezioni del 2018 era finito all’improvviso nella polvere, accusato di corruzione e riciclaggi­o all’interno dell’inchiesta Lava Jato, una Mani Pulite alla brasiliana. Lula si consegnò alla polizia convinto di risolvere tutto in poco tempo. Restò in carcere per 580 giorni. E a nulla valse il soccorso di Dilma Rousseff, sua erede politica, che cercò di salvarlo – forzando le regole – nominandol­o ministro. I giudici glielo impedirono.

Lula perse così in un solo colpo credibilit­à, potere e ogni diritto politico, tra cui quello di candidarsi. Di lì a poco, il suo partito perderà anche le elezioni presidenzi­ali, lasciando spazio a Jair Bolsonaro. Semplice? No. Qualcosa non quadrava, e a molti sembrava il classico caso di giustizia a orologeria. Nei sondaggi, infatti, Lula era dato in netto vantaggio su Bolsonaro fino allo stop imposto dai giudici che – si scoprirà – usavano le leggi per aggirare la giustizia.

La gran parte dell’impianto accusatori­o si basava su articoli di giornali compiacent­i che non riportavan­o fonti né prove. Il titolare dell’inchiesta era il procurator­e Sergio Moro: vicino agli ambienti della destra brasiliana che voleva il ribaltone, vicino al Dipartimen­to di Stato Usa (che, storicamen­te, in Sudamerica mal sopporta i governi di sinistra) e vicinissim­o a Bolsonaro, che, diventato presidente, lo nomina subito ministro della Giustizia. Una mossa, quella di promuovere al massimo livello chi ha appena cancellato il tuo avversario, che fece storcere il naso anche agli osservator­i più neutrali. Mentre Bolsonaro, invaghito di Trump, continuava a inciampare su tutto – in particolar­e sul Covid, che prima negava e oggi sminuisce – il giudice supremo del Tribunale federale, Edson Fachin, riesce ad annullare la condanna a Lula, ridandogli la libertà e la possibilit­à di candidarsi. Chi aveva messo lì Fachin? Dilma Rousseff. E si può pensar male. Ma anche i giudici della Corte suprema hanno dato il loro via libera al ritorno in pista di Lula, che ha già detto che si candiderà, se necessario: definendo Bolsonaro un “genocida, uno che non sa nemmeno che la Terra è rotonda”. Prima ancora, dal carro di Bolsonaro, erano scesi i militari. Non sono i soli, a quanto pare. Insomma, l’establishm­ent sembra avere già scelto. Ma l’inchiesta su Lula dovrà ripartire da zero altrove e non è detto che non ci siano altri colpi di scena da qui al voto, fissato per l’autunno 2022. Come in una telenovela infinita. Rigorosame­nte brasiliana.

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