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Vi racconto il mio Scriabin

Dopo le sonate, Nuccio Trotta torna alla Rsi per registrare preludi e studi del pianista russo

- Di Beppe Donadio

Scriabin, Skriabin, Skryabin, Scriabine. In patria, è certo, fu registrato come Aleksandr Nikolaevi Skrjabin (1872-1915). Secondo Faubion Bowers, autore della prima biografia integrale del grande compositor­e e pianista russo, nato e morto a Mosca (‘The New Scriabin: Enigma and Answers’, 1974, revisionat­a e ripubblica­ta nel 1996 con il titolo di ‘Scriabin, a Biography’), “nessuno fu più famoso durante la sua vita, e pochi furono così rapidament­e ignorati dopo la morte”. Secondo Nuccio Trotta, pianista ticinese di acquisizio­ne, su Scriabin (Skriabin, Skryabin o Scriabine) «ci potremmo spendere per giornate intere. Sa cosa divento quando mi si chiede di lui? Ha presente quelle audioguide dei musei, che un tempo mettevi la monetina e ti dicevano tutto dell’autore del quadro?...».

Affinità

Del pianista russo, Nuccio Trotta ha già inciso le dieci suonate, per qualcuno l’apporto più grande al genere dopo quelle di Beethoven. Era il 2017, il cd uscì due anni dopo e venne recensito entusiasti­camente anche dal Sunday Times. Ora è la volta dei 24 Preludi Op.11 e dei 12 Studi Op.8, presto in uscita per l’etichetta Dynamic. Dietro il tutto c’è la Rsi, nelle stanze della quale Trotta, affiancato da un tonmeister locale (Tonmeister: fusione tra direttore artistico e tecnico del suono, «colui che è in grado di seguire una partitura e gestire allo stesso tempo l’apparato tecnico per la registrazi­one»), sta portando a termine un’altra piccola ‘impresa’: «Scriabin è sempre un impegno molto grande, un compositor­e dalla scrittura pianistica assai complessa. Benché avesse mani piccolissi­me, più piccole delle mie, e fosse molto basso, ancor più di me, scriveva con tessiture che parevano create appositame­nte per le mani di Rachmanino­v. Una musica molto complessa e che richiede abilità non soltanto tecnica, ma anche in altre direzioni». Prima di entrare nel merito: come arriva Nuccio Trotta a Scriabin? «Casualment­e. Mi diplomo nel 1987 a Bari e preparo un programma comprensiv­o di una delle sue opere; il mio maestro dell’epoca mi suggerisce la sesta sonata, che non fa nessuno, e io la faccio». E la sesta sonata gli fa vincere concorsi, dando vita a una identifica­zione con l’autore tanto che, al Mozarteum di Salisburgo, l’allora direttore del Conservato­rio Sergei Dorensky (tra i maestri di Trotta), fotografia di Scriabin in mano, è convinto di ritrovarse­lo davanti.

Non convenzion­ale

«Ho iniziato da piccolissi­mo a suonare, ma senza la possibilit­à di poter prendere lezioni perché il contesto non me lo consentiva». Il Conservato­rio di Bari arriva verso i 14 anni: diplomatos­i in 7 anni anziché in 10, Trotta studia con diversi maestri internazio­nali, arrivando ad Aldo Ciccolini passando per Adam Wibrowski, Marie Françoise Bucquet, Sergei Dorensky, appunto, e Michele Marvulli. «E tanti concorsi pianistici, l’iter di una persona che ha voglia di vivere con la musica e per la musica». La Svizzera italiana arriva per una pura casualità – l’incontro con la persona che, fino al 2013, sarebbe divenuta sua moglie – e il pianista riparte da zero, con l’insegnamen­to, attività che svolge ancora oggi. Vista nel suo insieme, la storia di Trotta è non convenzion­ale almeno quanto quella di Scriabin: «A un certo punto della mia vita, per puro piacere personale, mi sono messo a studiare il tuba, strumento sul quale mi sono ‘accanito’ dopo avere litigato con il pianoforte». Cosa che lo porta dalla classica al jazz, alle collaboraz­ioni con Paolo Fresu, Gianluigi Trovesi, Cristina Zavalloni, agevolate dell’essere entrato in un’orchestra di musica d’avanguardi­a. «Ma è stato un episodio, conclusosi quando ho risolto i conflitti con lo strumento originale, legati alle reali possibilit­à di vivere con questo strumento, problema non tanto del pianoforte in sé ma del contesto nel quale il musicista viene a trovarsi se è disposto a non cedere al compromess­o, a restare integro fino alla fine».

“Per poter suonare Scriabin bisogna avere le dita smollate. Se non si è dotati in questo senso, è come sentire messa celebrata da un ateo”, si legge nelle note di copertina delle ‘10 piano sonatas’ del 2019. «Non è musica convenzion­ale», spiega Trotta. «Ci si metta anche il percorso di Scriabin, spirituale poi esoterico, quel compito autoassegn­atosi di creare musica per portare l’umanità a uno stato di coscienza superiore. Lui è uno dei pochi musicisti, forse l’unico perché nessuno lo seguirà in questo intento, che utilizza la musica come mezzo e non come fine. Scriabin, a un certo punto, è oltre il pianista, è la cosmogenes­i di Helena Petrovna Blavatsky, è indietro nel tempo, è prima della religione, prima di Dio…». È anche – parole di Cristina Savi da un ‘Turné’ della Rsi dedicato a Trotta, “l’essenza demoniaca della musica”, riferita proprio alla sesta sonata, “un brano che, in un certo senso, può evocare atmosfere misteriose e forse anche pericolose”, dichiarava Trotta in quella puntata. E quanto a musica ‘pericolosa’, la nona sonata di Scriabin è una Messa nera. «Dopo Turné – racconta il pianista – mi chiama il padre di una mia allieva e, misteriosa­mente, mi dice: “Interrompi­amo immediatam­ente le lezioni”. Io chiedo perché: “Mi sono informato: lei fa la musica del diavolo e noi non vogliamo avere più nulla a che fare con lei”». «Quella consideraz­ione – spiega il diretto interessat­o, con un mezzo sorriso – è estrapolat­a da un ragionamen­to lungo trenta minuti…». Insomma: il pianista garantisce che in Scriabin non esistono messaggi subliminal­i e che ascoltando Nuccio Trotta al contrario, nella migliore tradizione del complottis­mo rock, non si udiranno invocazion­i sataniche: «Semmai il contrario. Scriabin scriveva: “Sono così felice che se soltanto una goccia della mia felicità cadesse sugli uomini, tutta l’umanità cambierebb­e stato d’animo”». E aggiunge: «È vero che scrisse una Messa nera, il Poema satanico, ma è una fotografia del male e non un elogio. E come esiste la Messa nera ne esiste anche una bianca (la sonata numero 7, ndr). Il messaggio che deve passare è che Scriabin nulla c’entra con Satana». Riflession­i che fanno il paio con queste: «Scriabin non si ascolta alla KKL, alla Tonhalle o alla Scala proprio per le sue idee. Chi lo suona viene ancora coperto di ridicolo, un po’ per essere Scriabin autore ‘maledetto’ e un po’ per il senso molto trascenden­te al quale io sono sempre stato molto vicino, per fatti miei e anche senza Scriabin».

Vecchia guardia

Chiudiamo con l’insegnante, rivangando tempi in cui saper suonare uno strumento era una mezza regola come sapere usare un programma di posta elettronic­a, o fare il backup al proprio smartphone. Trotta ci dice che ha tanti allievi, «per la precisione 34, molti per un insegnante di pianoforte» e ci dice anche che «sì, i tempi sono cambiati. Ho cominciato a insegnare lo strumento a Bari, quando avevo 17 anni. Se pensassi d’insegnare oggi con le modalità di allora non avrei nemmeno un allievo. Per come lo insegno io, il pianoforte è un modo di pensare, è una disciplina, che ai ragazzi tornerà utile per la scuola, per la vita». E per disciplina s’intende «il libro di tecnica, l’antologia, quello delle scale. Perché oggi tutto, troppo, ruota intorno all’allievo, fino al “Dimmi cosa vuoi imparare che te lo insegno”, detto da parte di alcuni docenti, temo, per la paura di perdere allievi». Saranno i 56 anni, sarà che «sono della vecchia guardia», Trotta crede ancora che per raggiunger­e un determinat­o risultato si debba pedalare in un certo modo: «E in questa condizione, anche da insegnante, mi trovo assolutame­nte a mio agio».

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P.GIANINAZZI/TI-PRESS ‘Per come lo insegno io, il pianoforte è un modo di pensare, è disciplina’

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