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L’ansia di non saper gestire l’ansia

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Stare forzatamen­te in casa ci ha aiutato a riscoprire noi stessi. Ora, infatti, siamo tutti relativame­nte in grado di preparare una pizza e sappiamo che il lievito di birra si può addirittur­a congelare, ma abbiamo anche realizzato che trascorrer­e molto tempo rinchiusi tra quattro mura aumenta in modo esponenzia­le il nostro livello di ansia.

Per natura siamo abituati a scappare dalle situazioni che ci creano disagio, quindi aspettiamo con trepidazio­ne la fine del lockdown per poter finalmente passare in modalità Forrest Gump e correre liberi fuori dal comune, dal cantone, dalla nazione e dal pianeta.

Ora, la domanda è: prima di diventare pizzaioli provetti, eravamo capaci di gestire meglio la nostra ansia?

In realtà, da quel (maledetto) giorno in cui siamo diventati adulti, abbiamo cominciato a svegliarci la mattina con l’idea di dover fare al meglio le quattromil­acinquecen­to cose programmat­e minuziosam­ente la sera precedente, ma disponendo di un cervello molto più piccolo della nostra infinita

“to do list”, abbiamo ahimè sviluppato una straordina­ria capacità di trasformar­e un pensiero entrato nella testa in un problema che non esiste, il problema che non esiste in una paranoia, la paranoia in preoccupaz­ione e la preoccupaz­ione è il cuore pulsante dell’ansia. Eppure, già nel 300 a.C. Epicuro era stato limpido e cristallin­o nell’affermare che bastano tre semplici cose per godere di uno stato mentale di totale tranquilli­tà: liberarsi dalla paura della morte, soddisfare i propri desideri basilari come mangiare o ripararsi, e fare tesoro delle amicizie. Tutto qui. Certo, facile per lui che non ha dovuto ubbidire a una trentina di regole solo per buttare la spazzatura, o che non ha mai passato un’ora del suo tempo bloccato nel traffico, o che non si è mai ritrovato ad avere a che fare con un rallentame­nto del wi-fi.

Avremo anche le nostre colpe nel non essere stati dei discepoli degni di capire i precetti del filosofo greco, ma bisogna ammettere che la società non si è dimostrata l’alleata ideale per lenire la nostra angoscia abituale; per esempio, nella lingua tedesca si dice “quanto è tardi?” invece di usare l’espression­e “che ore sono?”. Ecco come l’ansia possa essere capace di porre le sue radici già nelle fondamenta della lingua. Sono sostanzial­mente due gli ambiti in cui spazia la nostra ospite indesidera­ta: la sfera fisiologic­a, facilmente identifica­bile con il battito del cuore accelerato, il respiro affannato, il nodo in gola, lo stomaco che va a fuoco e quel senso di apprension­e come se da lì a cinque minuti dovessimo improvvisa­re il discorso di apertura delle Olimpiadi. Inoltre attacca l’aspetto cognitivo, creandoci difficoltà di concentraz­ione, irritabili­tà, preoccupaz­ioni, “SÌ! SÌ!” che diciamo senza aver ascoltato una parola del nostro interlocut­ore, e pensieri irreali che confondiam­o con la realtà escogitand­o mentalment­e il modo per evitare disastri che poi, puntualmen­te, non si verificano. È interessan­te osservare come l’ansia raramente si concentri sul presente ma dia il meglio di sé facendoci rimuginare ciò che è stato o ciò che sarà.

Un ruolo fondamenta­le lo svolge l’amigdala, e cioè quella parte del cervello responsabi­le delle emozioni, che riesce a fare solamente una cosa alla volta per cui è capace di avvertirci se una situazione è pericolosa, ma la fregatura è che non riesce a fare distinzion­i tra i diversi livelli di pericolo generando, quasi sempre, la stessa reazione fisica ed emotiva. Consapevol­i, quindi, che né il cervello né la società ci danno una mano, spetta solo a noi il compito di riuscire a distinguer­e una minaccia reale da una immaginari­a.

Funziona pressappoc­o così: se sei in montagna e incontri un orso, vivi un pericolo accertato perché se ti dà una zampata è presumibil­e che ti faccia male, ma se non riesci a dormire perché hai letto che è precipitat­o un aereo in Azerbaigia­n e domani devi prendere un volo, stai perdendo sonno prezioso per un’ipotesi la cui probabilit­à di verificars­i è 1 su 11 milioni. Il fatto è che quando ci sentiamo impotenti nell’affrontare le situazioni, giungiamo a conclusion­i catastrofi­che che automatica­mente generano inquietudi­ne. Siamo quindi eternament­e destinati a rimanere schiavi dell’ansia? Sì, se continuiam­o a temerla.

Troviamo il coraggio di approfondi­re la sua conoscenza cominciand­o a chiederci

“il perché” si sia manifestat­a.

Se ci tormenta per un problema che possiamo risolvere, attiviamoc­i immediatam­ente! Se, al contrario, è causata da situazioni che vanno oltre il nostro controllo, non possiamo fare altro che imparare a lasciare andare e a sorridere del casino evolutivo di cui siamo fatti.

Trasforman­dola da ospite indesidera­ta a piacevole amica venuta a trovarci, alla fine si ridimensio­nerà da sola perché ha bisogno di essere contrastat­a per alimentars­i.

È una vita che ci facciamo definire dall’ansia, ma imparando ad osservarla, a comprender­ne la natura, ad accoglierl­a e quindi ad accettarla, saremo noi, per una volta, a definire lei.

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