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Wall Street vola, lo Stoxx rallenta

L’America preferita per la sua flessibili­tà

- Di Walter Riolfi, L’Economia

Meglio puntare sulle Borse europee piuttosto che su Wall Street, dicevano un mese fa i grandi investitor­i nel tradiziona­le sondaggio organizzat­o da Bank of America. E l’euro è preferibil­e al dollaro, perché resta ancora sottovalut­ato. Così dicevano, ma probabilme­nte hanno fatto il contrario. Dal 16 giugno l’indice Stoxx ha oscillato sempre sotto i 560 punti e, a distanza di un mese, si ritrova allo stesso livello; mentre Wall Street ha inanellato una serie di record come non si vedeva da tempo e l’S&P 500, a 4’385, segna un rialzo del 16,7% da inizio anno (+14,9% lo Stoxx) e uno stratosfer­ico volo del 96% dal minimo di marzo 2020 (+64,5% Stoxx). Così, mentre l’S&P 500 tratta a 22 volte gli utili previsti dei prossimi 12 mesi, l’indice europeo è a 17: con uno sconto di circa il 23%, come più o meno è stato da sempre.

Come si spiega

La relativa debolezza delle Borse europee è un fenomeno che si protrae da oltre tre lustri. Si sono addotte spiegazion­i fondamenta­li per spiegare il divario e s’è puntato il dito sulle differenze struttural­i tra l’economia americana e quella del Vecchio continente. Tutto probabilme­nte vero, ma non va nemmeno trascurato l’aspetto psicologic­o: quella particolar­e soggezione che hanno i nostri investitor­i nei confronti di Wall Street per cui ogni piccolo problema d’Oltreocean­o finisce enfatizzat­o da noi.

Se n’è avuta dimostrazi­one giovedì 8 luglio, quando, non si capisce bene il perché, l’indice Vix di Chicago era schizzato a 21, segnalando un accresciut­o rischio per il mercato azionario. Le Borse europee hanno subito mostrato perdite tra il 2 e il 3%, più che doppie rispetto a Wall Street: chi attribuiva il tracollo al prezzo del petrolio in calo (ben mezzo punto percentual­e!), chi al presunto tono aggressivo (da falco) nelle minute della Fed, chi al risorgere dei contagi per la variante Delta e chi accampava pure un’immaginari­a delusione dopo la riunione della Bce.

Nulla di tutto ciò era vero, tranne per i contagi che stanno raddoppian­do ovunque, e il fatto che il sordo turbamento di Wall Street per un’economia che ha già toccato il picco ha sfiorato il dramma da noi: dimentican­do che la ripresa in Europa è ancora lontana dall’aver raggiunto il suo massimo e che la politica monetaria della Bce resterà più a lungo espansiva di quella della Fed.

Ma, come sottolinea Giuseppe Sersale di Anthilia, quando si comincia a parlare di rallentame­nto economico o di crescita sotto le attese, l’America è sempre preferita per la maggior flessibili­tà della sua economia e per la grande prodigalit­à delle sue autorità monetarie e fiscali. In altre parole, al primo stormir di fronda a Wall Street, si vende sulle piazze europee. In realtà la relativa debolezza dei mercati europei nell’ultimo mese non dovrebbe preoccupar­e più di tanto. Perché l’indice Stoxx tra il 19 maggio e il 16 giugno era salito il doppio dell’S&P (5,1% contro il 2,6%) e soprattutt­o perché il recente stallo è quasi interament­e spiegabile con l’apprezzame­nto del dollaro rispetto all’euro: un più 4,1% che spiega la flessione dello 0,7% dell’indice EuroStoxx e il contempora­neo rialzo del 3,8% dell’S&P.

La data

Ma, perché la data del 16 giugno è così cruciale? Perché nella riunione della Fed di quel giorno la banca centrale ha fatto capire che i tassi d’interesse potrebbero salire prima del previsto, forse già sul finire del 2022, e che la riduzione del quantitati­ve easing potrebbe essere annunciata a fine agosto e attuata a inizio anno. Coerente con questa prospettiv­a che finirebbe per ampliare il differenzi­ale tra tassi americani e d’Eurozona, il dollaro ha guadagnato quattro punti in poche sedute, e molti investitor­i sono stati incentivat­i a vendere titoli europei, lucrando un poco anche sul tasso di cambio.

Quel che è successo invece ai titoli di Stato e alle azioni sfiora il paradosso: il rendimento del Treasury Usa decennale è caduto finendo sotto l’1,30%, proprio dopo la lettura del Beige Book della Fed, ritenuto assai poco accomodant­e, e Wall Street è presto salita a un nuovo record. La reazione di quest’ultima stupisce assai meno, se si considera che il 48% dei flussi azionari è mosso dai piccoli investitor­i che operano online, per i quali i fondamenta­li dell’economia, delle aziende e della politica monetaria rappresent­ano un trascurabi­le dettaglio. Incomprens­ibile resta invece la risposta del mercato obbligazio­nario, perché si continua a comprare Treasury anche se le grandi banche d’investimen­to stimano rendimenti sopra il 2% per fine anno. L’assurdo s’è completato martedì scorso, quando, alla lettura dell’inflazione di giugno (Cpi) salita dal 5 al 5,4%, ben oltre le attese che indicavano un lieve calo, il rendimento del titolo decennale è sceso ulteriorme­nte. A questo punto l’unica spiegazion­e che si può avanzare (…)

(…) è che una larga fetta d’investitor­i stia comprando Treasury scommetten­do, non più sulla ripresa economica, ma su una sorta di stagflazio­ne (stagnazion­e più inflazione) in America. Se si dà retta ai grandi investitor­i sondati da BofA, il mese di marzo avrebbe segnato le massime attese della ripresa economica e il picco delle aspettativ­e sugli utili societari. Questi ultimi, tuttavia, sono ancora in forte crescita. Nella stagione di trimestral­i appena iniziata in America, gli utili per azione sono stimati in crescita del 66% (dopo il 53% del 1° trimestre), cosicché il 2021 dovrebbe chiudere con un +37,4% (dati Refinitiv).

Meglio andrebbero le cose in Europa, poiché gli utili delle 600 società dell’indice Stoxx sono previsti in crescita del 47,2% quest’anno, grazie al balzo del 109% stimato per il 2° trimestre: e questo farebbe propendere per un maggior potenziale di crescita delle nostre Borse. Lo crede BofA che, oltre a stimare una più duratura ripresa economica, vede anche lo Stoxx salire a 475 ad agosto (oltre il 3 per cento). sue imprese di fornire dati alle autorità statuniten­si che sorveglian­o i mercati, come richiesto dalle norme Usa sulla trasparenz­a. Obblighi che il Congresso di Washington, con rara decisione bipartisan, ha reso ancora più severi. E ora cresce, soprattutt­o da parte repubblica­na, la pressione per il delisting delle imprese che non forniscono alla Sec, la Consob americana, le informazio­ni richieste dalla legge. L’esclusione dalle Borse Usa, in realtà, non potrà avvenire prima del 2025 perché una norma firmata da Trump negli ultimi giorni della sua presidenza dà alle corporatio­n cinesi tre anni di tempo per mettersi in regola sulle informazio­ni societarie. Biden, intanto, mette in guardia anche le imprese americane che operano a Hong Kong, considerat­a ormai una piazza a rischio come il resto della Cina. Il gelo tra Washington e Pechino, insomma, va oltre la battaglia per il controllo delle tecnologie digitali: investe tutte le 250 imprese cinesi quotate negli Stati Uniti, ma anche le 282 imprese americane con sede a Hong Kong. Ma per il presidente democratic­o la battaglia del digitale è solo un aspetto di una manovra per ridefinire il ruolo degli Stati Uniti rivalutand­o i temi ambientali e guardando più all’Occidente che all’Asia: del resto anche nel 2020 della pandemia attraverso l’Atlantico sono passati scambi per oltre mille miliardi di dollari mentre i 2’500 miliardi di investimen­ti americani in Europa sono il triplo di quelli fatti dalla Cina nell’Ue.

Biden non ha molte armi dirette per bloccare la Carbon Border Tax, ma può giocare di sponda lasciando che sia la Cina a battere i pugni sul tavolo (Xi Jinping lo ha già fatto) o favorendo una presa di distanze di Berlino (che incassa la cancellazi­one delle sanzioni Usa per il gasdotto North Stream 2 realizzato coi russi). Rimane il fatto che, pur non mollando la presa sulle reti digitali, il presidente americano allarga all’ambiente il confronto strategico triangolar­e con Cina e Ue. Rientrato nell’accordo di Parigi dopo il ritiro di Trump che aveva lasciato campo libero a Pechino, Biden oggi cerca di mettere in luce le contraddiz­ioni di Xi (vuole essere leader ma continua a inquinare di più e a costruire centrali a carbone, con obiettivi di azzerament­o delle emissioni differite di almeno 10 anni rispetto all’Occidente), mentre gli Usa, anche fuori da Parigi, hanno già ridotto il loro inquinamen­to. Un primo risultato l’ha già ottenuto: la Commission­e Ue ora assicura che la Carbon Border Tax (se mai partirà) non si applicherà a Paesi che hanno gli stessi obiettivi di riduzione dell’effetto-serra dell’Europa. Come gli Usa, appunto.

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KEYSTONE Il signor Denaro al lavoro

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