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‘È tempo di investire per tenere i giovani’

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Fino a due generazion­i fa chi partiva per studi accademici poi rientrava a lavorare in Ticino, oggi si fatica a tornare (infatti se ne vanno in 800 l’anno circa) anche per una questione di salari: chi studia al Politecnic­o di Zurigo, se resta sulla Limmat trova salari del 40% più elevati. Per un ingegnere o un informatic­o ticinesi significa guadagnare anche 4mila franchi in più. Non sarà sempre una questione di salario, ma spesso lo è. Se il trend continua non si rischia di indebolire il potenziale economico del cantone? Quali ripercussi­oni; quali rimedi? Ci risponde il professor Spartaco Greppi che alla Supsi dirige il Centro competenze lavoro, welfare e società. «Il criterio salariale è sicurament­e importante ed ha un’incidenza prepondera­nte sulla scelta del luogo di lavoro. Se dovesse persistere, o addirittur­a peggiorare, il fenomeno dei bassi salari, favorendo nuove emorragie di cervelli, il Ticino sarà destinato a perdere in dinamismo, in innovazion­e, in vivacità economica, sociale, culturale. Pensiamo ad esempio ai giovani che fondano startup, imprimendo dinamismo alla società in cui vivono. Tutte risorse che il Ticino vede emigrare verso i centri urbani elvetici», spiega il professore.

Un ruolo determinan­te per invertire questa tendenza ce l’ha la politica. «Altri cantoni stanno investendo per attuare strategie virtuose che attraggono cervelli mobili, mentre in Ticino il contesto non sembra favorevole per fare investimen­ti. Prevale il pareggio di bilancio, il freno alla spesa pubblica mentre i bisogni sociali crescono. Per attirare cervelli occorre investire e offrire salari adeguati mentre il dibattito politico sembra concentrar­si prevalente­mente su come attirare i contribuen­ti facoltosi».

Per il professore, il fenomeno non è solo ticinese ed è multidimen­sionale. «Sicurament­e il contesto ticinese – incuneato in una realtà lombarda dinamica che offre un enorme bacino di manodopera anche specializz­ata – è più fragile di quello nazionale. Ma tutta la società è più mobile: anche la Svizzera approfitta della fuga dei cervelli dalla Francia, dalla Germania». Inoltre le scuole ticinesi sfornano più lavoratori specializz­ati di un tempo e non tutti trovano impiego in una realtà piccola come quella ticinese. «Formiamo molti più profili specializz­ati e c’è chi parte per poter trovare un posto all’altezza delle personali aspettativ­e. Ambizioni e stili di vita sono cambiati».

C’è anche una lettura storica. Il Ticino ha già vissuto fasi di emigrazion­e in passato, quello che manca oggi sono i posti ‘sicuri’ ben retribuiti. «La forte crescita economica degli anni 60 ha celato vari scompensi del sistema. Allora i ticinesi lavoravano in banca o alle regie federali e i frontalier­i in fabbrica. I posti federali assorbivan­o parecchia manodopera specializz­ata offrendo salari elevati.

Un esempio sono le Officine: da 700 dipendenti siamo passati a circa 400. Restano poche grandi imprese in grado di assorbire molta manodopera specializz­ata pagando buoni salari. Oggi gli scompensi vengono a galla». Ad aumentare sono le realtà economiche che sfruttano la manodopera a basso costo, come dimostra la struttura del mercato del lavoro in Ticino, dove il 30% degli occupati sono frontalier­i (erano il 17% nel 2002). «È irrealisti­co pensare che il Ticino, con la sua economia ricca di export, possa ‘fare da sé’.

Occorre piuttosto capire come superare certe fragilità che vengono da lontano, in una realtà che accanto ad alcune eccellenze vede ancora una forte dipendenza dalla manodopera a basso costo».

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