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Pareggio dei conti, ‘così andiamo a sbattere’

Per l’economista Sergio Rossi ‘Ripetiamo ciclicamen­te la stessa terapia fallimenta­re’

- Di Lorenzo Erroi

Raggiunger­e il pareggio del conto economico cantonale entro il 2025, agendo prioritari­amente – seppur non ‘esclusivam­ente’ come voleva l’Udc – sul contenimen­to della spesa pubblica, evitando nuove tasse. È quanto deciso martedì dal Gran Consiglio, con una maggioranz­a che ha unito Plr, Lega e la stessa Udc. Il dibattito, naturalmen­te, è stato acceso: c’è chi ha parlato dell’importanza di non accumulare debiti pubblici per la sostenibil­ità intergener­azionale dello Stato, chi ha paventato un parziale smantellam­ento del welfare e chi infine ha fatto notare che forse si tratta solo di parole al vento, visto che poi si tratterà di decidere volta per volta quali spese tagliare, eventualme­nte arrivando anche ai referendum. Chiarament­e preoccupat­o dalle cronache è l’economista Sergio Rossi, professore di macroecono­mia ed economia monetaria all’Università di Friburgo, osservator­e di lungo corso del ruolo dello Stato in economia.

Professor Rossi, si dice sempre che lo Stato dovrebbe comportars­i come un buon padre di famiglia, stringendo la cinghia in tempi grami. L’iniziativa parlamenta­re appena approvata non va forse in questo senso?

Intanto, occorrereb­be capire chi sia un buon padre di famiglia: dubito che lo si possa definire come colui che in un momento di difficoltà, pur di non indebitars­i, priva la sua famiglia di uno standard di vita e di prospettiv­e adeguate. A maggior ragione lo Stato – che ha certamente le spalle più larghe – non può rinunciare a fornire alla popolazion­e quei servizi tanto più necessari in tempi di crisi. Inoltre, gli investimen­ti pubblici servono a sostenere il benessere e i consumi di tutti, per cui un risparmio pubblico immotivato può avere conseguenz­e che non si limitano a un singolo ‘focolare’. Certe decisioni politiche rischiano di limitare la possibilit­à di garantire tutta una serie di ammortizza­tori e servizi, frenando anche gli investimen­ti dei quali proprio la crisi legata alla pandemia ha fatto vedere la necessità e l’urgenza, dal campo della salute a quello dell’aiuto alle persone che hanno i redditi più bassi.

A dire il vero il deputato Udc Sergio Morisoli, promotore dell’iniziativa, sottolinea che non si tratta di tagliare la spesa pubblica, ma solo di rallentarn­e la crescita. E c’è chi nota che comunque le singole misure di risparmio saranno sottoposte a dura battaglia parlamenta­re, per cui non è il caso di fasciarsi la testa prima di rompersela.

Certo, ma siamo alla tattica del salame per far passare l’ennesima di una serie di iniziative mirate a ridurre il ruolo e le capacità finanziari­e del servizio pubblico. Anche il lessico utilizzato fa parte di quella narrazione: ‘contenimen­to’ della spesa e ‘sgravi’ fiscali (quelli proposti dal Plr per i più ricchi, ndr) invece di ‘tagli’, ad esempio. Così si indora la pillola, specie con la campagna elettorale per le elezioni cantonali alle porte, ma ciò che si difende sono pur sempre delle politiche contrarie alla necessità di superare le difficoltà.

In effetti la combinazio­ne dei tagli di imposta e della riduzione di spesa è un po’ l’elefante (di Lakoff) nella stanza. Però anche John Maynard Keynes sosteneva che nel lungo periodo ci si deve liberare dall’indebitame­nto pubblico che invece può essere utile a breve termine, altrimenti si entra in un circolo vizioso. Non le pare giusto?

Ma bisogna uscirne attraverso un piano di sviluppo economico sostenibil­e. Qui invece assistiamo a un circolo vizioso inverso. Dai tempi di Marina Masoni applichiam­o a cicli ripetuti la stessa terapia che si è già rivelata fallimenta­re: riduciamo le imposte attendendo­ci maggiori introiti fiscali grazie allo stimolo che questo dovrebbe fornire all’economia; quegli introiti non arrivano, perché spesso le imprese distribuis­cono sotto forma di dividendi o riversano sul mercato finanziari­o internazio­nale quanto risparmiat­o in imposte, e lo stesso fanno i cittadini più facoltosi, invece di investire sul territorio e sostenere l’indotto e i consumi; di conseguenz­a ci troviamo di fronte a un disavanzo nei conti pubblici causato dai tagli alle imposte che suggeriamo di risolvere riducendo nella stessa misura la spesa pubblica, come se il problema fosse che si spende troppo e non che si incassa troppo poco a causa di scelte politiche improvvide fatte in precedenza. E così si ripete l’errore di partenza in una spirale verso il basso. La colpa intanto viene sempre affibbiata a cause esogene: la congiuntur­a, la libera circolazio­ne, la pandemia… A forza di ripetere lo stesso approccio, lo Stato – in Ticino come a livello federale – si trova a dover svendere e privatizza­re le sue attività più redditizie rimanendo solo con quei servizi fondamenta­li sì, ma necessaria­mente in perdita. E il debito pubblico aumenta ulteriorme­nte.

D’accordo, però in un calderone enorme come la spesa pubblica ci sono parecchi sprechi, o no?

Certo, non sono rare le voci su funzionari che magari si dichiarano in missione mentre sono a seguire il cantiere di casa propria o a giocare a tennis, ed è altrettant­o chiaro che alcuni uffici possono essere gestiti in modo più efficiente ed efficace. Nessuno sta dicendo che i soldi pubblici si debbano sprecare come se non finissero mai. Però non si può neanche generalizz­are, demonizzan­do l’intera macchina dell’amministra­zione e del servizio pubblico come se fosse un covo di nullafacen­ti pur di giustifica­re tagli orizzontal­i e drastici, che alla fine investono il cittadino comune quando deve affrontare una realtà fatta di meno aiuti, meno servizi, meno letti in terapia intensiva.

Magari è lo stesso cittadino che sposa la retorica dei ‘fuchi’ da punire e quindi sostiene il contenimen­to della spesa pubblica: colpisce come l’Udc riesca a difendere un’agenda potentemen­te ‘menostatis­ta’, eppure peschi voti proprio tra le fasce più fragili della popolazion­e.

L’Udc riesce ad affiancare un’agenda neoliberis­ta in campo economico con un forte discorso di protezione dal presunto nemico straniero. Si tratta di una contraddiz­ione che non risolve i problemi sociali, ma in questo è favorita dalla sinistra, che oltre alle infatuazio­ni per politiche più ‘blairiane’ sconta la sua incapacità di parlare ai lavoratori. Questo vale anche per temi scottanti come la libera circolazio­ne, che non va abbandonat­a ma pone oggettivam­ente dei problemi, anche se un’economia sostenibil­e non può risolverli demonizzan­do i frontalier­i e perorando un protezioni­smo inefficien­te, quanto piuttosto spingendo per regole e contrattaz­ioni che richiamino gli imprendito­ri alle loro responsabi­lità.

Proprio l’attrazione di imprese fa parte del ragionamen­to di chi, magari chiudendo un occhio sulle condizioni offerte ai lavoratori, conta su di esse per aumentare il gettito fiscale e quindi finanziare la spesa pubblica senza ricorrere a nuove imposte. Cosa potrebbe mai andare storto?

Il fatto che si arriva a una società nella quale alcuni lavoratori ricevono stipendi vietnamiti, pur di tenere sul territorio imprese che offendono la dignità dei lavoratori e dovrebbero sparire. Così facendo non si creano neppure incentivi per imprese più responsabi­li e a maggiore valore aggiunto.

Negli Stati Uniti l’amministra­zione del presidente Joe Biden stanzia 4mila miliardi di investimen­ti pubblici, la presidente della Commission­e europea Ursula von der Leyen aziona un ‘cannone’ di spesa pubblica senza precedenti, segnando un distanziam­ento epocale dall’austerity perseguita perfino dopo la crisi finanziari­a dello scorso decennio.

E la Svizzera?

La Svizzera – non solo il Ticino ovviamente – resta ancorata alle politiche di stampo thatcheria­no e reaganiano, all’idea che un mix di riduzione dei compiti dello Stato, privatizza­zioni, risparmi e politiche fiscali a favore delle grandi imprese generi ricchezza destinata a ‘sgocciolar­e’ su tutta la popolazion­e. Si tratta di una posizione anacronist­ica e smentita dai fatti, eppure la si difende ancora, invece di impegnarsi in seri programmi di investimen­to pubblico anticiclic­o per assicurare la tenuta dell’intero sistema socioecono­mico.

Un altro liberalism­o è possibile?

È possibile e doveroso. Lo stesso Keynes era un liberale. Lo scopo di avere uno Stato solido non significa ‘sovietizza­re’ tutto, come vorrebbe una certa retorica, ma consentire anche alle imprese nel settore privato di essere forti, solide e sostenibil­i. Un liberalism­o che riconosca la necessità di poggiare su entrambe le gambe, ossia pubblico e privato, a differenza del liberismo, non è certo un’eresia se guardiamo alla storia e all’analisi economica.

Per finire, che quadro dipinge per un 2025 ‘austero’ come – almeno a parole – lo vorrebbe la maggioranz­a del Gran Consiglio?

Intanto va detto che l’esito della votazione, con 45 favorevoli e 39 contrari, indica che anche all’interno del legislativ­o ci sarà ancora resistenza alla tendenza maggiorita­ria. In caso contrario si preannunci­a un quadro a tinte fosche, che francament­e mi fa venire qualche brivido lungo la schiena. Si continua a insistere con un approccio che impoverend­o lo Stato finisce per impoverire e indebolire anche le famiglie e le piccole imprese. Questo spinge anche a una maggiore riottosità sociale e all’incedere dei populismi che la strumental­izzano. Andando avanti così rischiamo insomma di andare a sbattere contro un muro.

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TI-PRESS ‘‘Anche il lessico utilizzato fa parte di quella narrazione: ‘contenimen­to’ della spesa e ‘sgravi’ fiscali invece di ‘tagli’, ad esempio. Così si indora la pillola’’
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UNIFR Sergio Rossi

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