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‘A Chiara’, storia di famiglia e ’ndrangheta

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Chiara ha 15 anni. È l’età della contestazi­one, in cui ci si mette in discussion­e, in cui la famiglia è non più solo un rifugio ma anche un’oppression­e. L’età in cui si inizia a bere e fumare e, se sorpresi da un cugino più grande, si fa gli spavaldi ma più che altro per nascondere la paura che mamma e papà lo vengano a sapere. La vita di Chiara è tutto questo, ma anche altro: suo padre appartiene alla ’ndrangheta, traffica con la droga, qualche regolament­o di conti, forse anche qualche omicidio. Una sera qualcuno dà fuoco alla sua auto, poi lui sparisce nel nulla, c’è un bunker nascosto nella villetta di famiglia, nei notiziari si sente quella parola, “latitante”, che fa crollare il mondo addosso a Chiara, mentre la sorella maggiore fa finta di niente.

‘A Chiara’ di Jonas Carcano prosegue il discorso iniziato con i due precedenti lungometra­ggi, ‘Mediterran­ea’ e ‘A Ciambra’, incentrati il primo sullo scontro tra migranti e abitanti di Gioia Tauro, il secondo sulla locale comunità rom. Ad accomunare questo trittico, oltre ad alcuni personaggi che ritornano nei vari film, è l’idea che Gioia Tauro sia un laboratori­o della globalizza­zione, come spiega lo stesso regista nelle note stampa. Il tema di ‘A Chiara’ non è dunque la malavita: la criminalit­à organizzat­a resta sullo sfondo, al centro c’è la famiglia. Chiara deve scegliere se accettare passivamen­te la “tradizione familiare” come fanno sua madre e sua sorella Giulia, se seguire il padre aiutandolo nelle imprese criminose come fanno i cugini più grandi, oppure se andarsene, se lasciare la famiglia e la Calabria per l’Umbria. Le autorità, in base a una legge che affronta la ’ndrangheta agendo sui legami familiari, vuole infatti mandare in affidament­o Chiara, darla a una nuova famiglia. “È un film sulla famiglia, sui rapporti padre-figlia, che racconta anche come le persone imparano a trovare la propria bussola morale, tra il bene e il male, e a tracciarsi un cammino per conquistar­e la propria libertà” ha dichiarato il regista.

Come si vede, gli ingredient­i del film sono estremamen­te interessan­ti; purtroppo Carcano non sempre riesce a cucinarli bene. La sua regia improntata a un realismo quasi documentar­istico è funzionale a portarci dentro una realtà complessa, in cui è impossibil­e dire con chiarezza cosa è giusto e cosa è sbagliato. Poi però cade in alcune implausibi­lità – un esempio tra i tanti: i carabinier­i che chiedono i documenti ma poi non controllan­o l’identità – che mandano all’aria tutto il realismo costruito precedente­mente. I protagonis­ti sono una vera famiglia di Gioia Tauro, i Ruotolo, conosciuti durante le riprese di ‘A Ciambra’, ma se la protagonis­ta Swamy si è rivelata una brava attrice e il padre Claudio se la cava più che bene, altri (come la madre) fanno sanguinare gli occhi. Molte scene – come l’interminab­ile festa di compleanno della sorella Giulia – avrebbero guadagnato da una bella sfoltitura in fase di montaggio.

Cosa funziona: il racconto, realista e senza retorica, di vicende umane e sociali complesse.

Cosa non funziona: troppe cadute nella sceneggiat­ura e, soprattutt­o, nella recitazion­e.

Perché vederlo: perché la storia e i personaggi sono molto interessan­ti e si racconta la malavita del Suditalia senza i soliti stereotipi.

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