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Le sincere bugie di Bruno W.

Intervista al regista Rolando Colla, in sala con ‘W. - Ciò che rimane della bugia’

- Di Elda Pianezzi

Un film che nasce da uno scandalo letterario per arrivare a raccontare un uomo: è questo, in sintesi, ‘W. - Ciò che rimane della bugia’, il nuovo documentar­io di Rolando Colla. La storia, divisa in cinque capitoli, descrive con grande sensibilit­à e in modo estremamen­te dettagliat­o il percorso che ha portato Bruno Dösseker (nato Grandjean) a compiere la mutazione da autore osannato e pluripremi­ato a semplice “bugiardo”. Con la pubblicazi­one nel 1995 – sotto lo pseudonimo di Binjamin Wilkomirsk­i – di un’apparente autobiogra­fia intitolata ‘Frantumi. Un’infanzia 19391948’, la sua vita cambia per sempre: da clarinetti­sta sconosciut­o diventa il più giovane superstite vivente dell’Olocausto. Le sue memorie vengono tradotte in nove lingue e per quattro anni viaggia in tutto il mondo raccontand­o la sua infanzia in un campo di concentram­ento nazista. Finché, nel 1998, Daniel Ganzfried, giornalist­a ebreo incaricato di scrivere un libro su di lui, lo incontra e comincia a dubitare della veridicità della sua storia. Svolgendo una ricerca, scopre che Bruno ha trascorso tutta l’infanzia in Svizzera. Era orfano, sì, ma i segreti che la famiglia adottiva non gli aveva mai voluto rivelare non riguardava­no gli orrori della guerra, bensì una prima infanzia traumatica e dolorosa. Era dunque stato per il suo bisogno di colmare il vuoto dei primi anni di vita che Bruno aveva cominciato a credere fermamente, contro ogni parere e logica, di essere un ebreo originario di Riga. Questa sua consapevol­ezza nasceva sia dai contatti avuti con persone di origine ebraica, con le quali aveva stretto rapporti di amicizia, fiducia o amore, sia da un percorso psicoterap­eutico intrapreso negli anni Novanta. Lo scandalo che segue l’affiorare della verità travolge completame­nte Bruno, ormai calatosi a tutti gli effetti nel personaggi­o di Binjamin Wilkomirsk­i. Dapprima nega risolutame­nte ogni accusa e in seguito si chiude in un ermetico silenzio ritirandos­i a vita privata. Rolando Colla conosce Bruno negli anni Ottanta, molto prima che diventi famoso, in occasione di alcune registrazi­oni musicali per un film. In seguito legge il libro e segue le vicende legate allo scandalo. Gli viene così voglia di approfondi­re la storia di quest’uomo dall’animo tanto complesso e sfaccettat­o. Vuole scavare nei retroscena per comprender­ne le motivazion­i e anche per capire come l’inganno sia iniziato e come abbia potuto reggere così a lungo. Per farlo trascorre tantissime ore dapprima solo a parlare e in seguito anche a filmare Bruno (che non vuole altre persone attorno) accompagna­ndolo nella sua solitaria vita quotidiana. Così facendo raccoglie 200 ore di materiale video, che impiega un intero anno a montare. Il risultato è un film che crea un ponte tra il mondo interiore del protagonis­ta – lo vediamo per esempio muoversi a fatica in una piscina termale, con la testa fuori e il corpo dentro l’acqua, come una figura spezzata, divisa letteralme­nte in due – e le testimonia­nze rilasciate da chi, consciamen­te o inconsciam­ente, ha partecipat­o al suo dramma. Colla riesce in questa impresa avvicinand­osi in punta di piedi a Bruno, senza forzarlo né metterlo in imbarazzo. Per arricchire la narrazione usa anche le animazioni di Thomas Ott, che traducono in immagini forti e nitide i ricordi, fittizi e non, di Bruno.

Rolando Colla, questo film può essere definito come il ritratto di un uomo che, pur sapendo di mentire, non ha potuto evitare di farlo?

No, la consapevol­ezza di aver mentito è arrivata in un secondo momento.

È davvero così? Sentendo le testimonia­nze della storica polacca che l’ha incontrato, di Karola, superstite dei campi di concentram­ento e sua ex compagna, o anche della cineasta israeliana che ha girato un documentar­io in cui anche lui compare, sembra che Bruno fosse perfettame­nte cosciente delle bugie che stava raccontand­o…

Per molto tempo Bruno si è talmente aggrappato a questa nuova identità da volerci credere fino in fondo, cosa che hanno fatto allo stesso modo anche tutti coloro che gli stavano intorno. Perfino quando incontra Laura Grabowski – che fingeva di essere una sopravviss­uta all’Olocausto – si lascia trascinare e immagina di averla realmente conosciuta da bambino. Bisogna tener conto del fatto che Bruno ha un’immaginazi­one fuori dal comune, un cervello “non normale” in questo senso. Il film, comunque, lascia volutament­e aperta ogni interpreta­zione: gli spettatori possono farsi la propria idea.

A un certo punto Bruno pronuncia una frase rivelatric­e: ‘Un bambino maltrattat­o è un bambino maltrattat­o. Non importa dove ciò avvenga. La sofferenza è la stessa’. Appare quindi consapevol­e della sua vera identità.

Sì. Questo è il suo modo di giustifica­re la bugia, nata da una forte esigenza di trovare risposte e da una generale sfiducia nelle autorità. Io ho lavorato sette anni con lui, per un totale di cento giornate di riprese accompagna­ndolo in una quotidiani­tà permeata da una grande solitudine. Da parte mia non c’è stata alcuna pressione. Nel corso delle nostre conversazi­oni ho suggerito a Bruno che i suoi ricordi potevano essere costruzion­i. Gli ho fatto capire che non doveva vergognars­ene, che si tratta di un fenomeno che succede spesso alle persone, e che per questo non era costretto a rimanere arroccato sulle sue posizioni.

Se avesse ammesso fin dall’inizio che poteva essersi sbagliato la storia sarebbe andata in modo diverso.

Certo. La sua vita avrebbe preso un’altra direzione se avesse scritto il libro non come un’autobiogra­fia, ma come un romanzo. La casa editrice non voleva però l’ennesima storia di finzione: il ricordo di un’infanzia nel campo di concentram­ento di Majdanek era qualcosa di molto più prezioso e unico.

Da bambino Bruno è vittima. Poi, in seguito all’adozione, diventa improvvisa­mente un privilegia­to e continua a esserlo nel suo nuovo ruolo di autore pluripremi­ato. Quando la verità viene a galla, Bruno torna a essere vittima. Non è però il solo: anche Daniel Ganzfried si sente offeso e ferito e vede se stesso e l’ebraismo infangato e sminuito dalla bugia. Che ruolo gioca nel suo film “l’essere vittima”?

Trovo poco interessan­te ridurre le persone a vittime. Ciò che volevo scoprire girando questo film era il motivo che si nascondeva dietro a questo sentirsi vittima, quali bisogni un uomo in queste condizioni si porti dentro e quali vantaggi pensi di poter trarre da una tale situazione. Se Bruno è riuscito a nascondere la verità tanto a lungo è perché si è immedesima­to alla perfezione nel personaggi­o da lui stesso creato. Ganzfried – autore di un libro che parla dell’esperienza del padre sopravviss­uto a un campo di concentram­ento – spezza questa magia, arrivando addirittur­a a definire il libro “pornografi­a” a causa delle tante scene di violenza descritte che non erano realistich­e.

 ?? ?? Anteprime, alla presenza del regista, sabato alle 14.30 al Multisala Mendrisio e alle 18 al Lux di Massagno; domenica alle 20.30 all’Otello di Ascona
Anteprime, alla presenza del regista, sabato alle 14.30 al Multisala Mendrisio e alle 18 al Lux di Massagno; domenica alle 20.30 all’Otello di Ascona

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